martedì 24 ottobre 2017



      RECENSIONE: LO SCUDO DI TALOS






Autore: Valerio Massimo Manfredi
Genere: storico
Editore: Mondadori, 1990
Pagine: 324
Prezzo: cartaceo: € 11,90
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Abbandonato dai genitori in tenera età in nome della crudele legge di Sparta, Talos, lo storpio, cresce tra gli iloti, salvato e accudito da un vecchio pastore che gli insegna a opporsi a un destino già assegnato. Nonostante la deformità, il suo coraggio e l'ostinazione ne fanno un arciere abile e possente, al servizio del prepotente ma intrepido Brithos. Come tutti i nobili figli di Sparta, Brithos è stato allevato per essere guerriero, e non sa ancora che un filo di sangue unisce il suo passato a quello di Talos. Ma la sorte schiera i due uomini fianco a fianco nella lotta contro gli invasori persiani.

Finora non avevo avuto molta fortuna col Manfredi scrittore: avevo iniziato un suo romanzo sui Faraoni, e l’ho abbandonato dopo pochi capitoli; un suo racconto ambientato a Venezia non mi era piaciuto affatto; finalmente ho trovato un romanzo con cui ricredermi.
Ho scelto tra i tanti questo ambientato nell'antica Grecia perché mi occorrevano fonti storiche , e anche , perché no, ispirazione, per un romanzo che sto scrivendo.

Il romanzo, pubblicato per la prima volta nel 1988, si divide in due parti: nella prima assistiamo all’abbandono del protagonista neonato da parte del padre perché zoppo, un nobile spartiata, su Taigeto; qui viene soccorso da un vecchio  ilota  (per chi non lo sapesse, gli Iloti sono gli schiavi degli Spartani, i Messeni da loro sconfitti secoli prima), viene cresciuto da lui che lo chiama Talos; a un certo punto arriva una sibilla che gli profetizza un futuro diverso. Poi un giorno il vecchio  gli  mostra l’armatura del leggendario  re di Ithome, la capitale distrutta e perduta dei Messeni, e si capisce che il giovane avrà a che fare con essa. Talos  si imbatte un giorno in Brithos, e qui inizia una serie di avvenimenti che non voglio spoilerare. 
Nella seconda parte del romanzo ormai Talos ha cambiato identità, si chiama Kleidemos ed è diventato un feroce guerriero. Il tutto è condito da drammi familiari, amore e soprattutto guerra: c’è la ormai stranota battaglia delle Termopili con i 300 capitanati dal re Leonidas, e ci sono altri fatti storici inseriti con ammirabile maestria nelle vicende del protagonista, come la battaglia di Platea, il terribile terremoto che distrusse Sparta, il tradimento di Pausania e la rivolta degli Iloti (non è spoiler, eh! Sono fatti storici).

Lo stile è curato e scorrevole, magari oggi come oggi qualcuno potrebbe reputarlo un po’ datato, per me invece va bene così perché adatto all’argomento. Il finalissimo non mi ha convinto del tutto, ma ci può stare.

 In tutta sincerità , nonostante il romanzo mi sia piaciuto, non ho trovato  particolarmente avvincente né originale: ricalca il noto schema dello sfigato che scopre di essere molto più di quello che è, cade a un certo punto in depressione, è confuso e poi si riprende alla grande.  C’è però da dire che sono passati circa 30 anni dall’uscita del romanzo, e di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia. Quando ho letto il brano delle Termopili, descritto benissimo, ho pensato: “No, ancora i 300!” , poi mi sono ricordata che all’epoca (1988,ripeto) ancora non era un tema stranoto come adesso, data l’uscita, nel frattempo, di numerosi film, fumetti e quant’altro. Manfredi quindi è stato un precursore.

Tutte le battaglie inserite nel romanzo sono narrate alla  perfezione, sembra di trovarsi lì.
Gli usi e i costumi locali compaiono in più punti, senza essere didascalico Manfredi mostra  un mondo lontano e perduto in cui si viene totalmente immersi, e  le vicende del protagonista e dei comprimari sono inserite alla perfezione nel susseguirsi dei fatti storici.
 Mi sono chiesta perché  secondo l’autore i sissizi sono dei battaglioni: io ho sempre saputo che sono i pasti in comune a cui gli spartiati dovevano partecipare e contribuire.  Anche circa la Krypteia avrei dei dubbi, in quanto Manfredi la vede come una sorta di polizia segreta, seguendo una scuola di pensiero, mentre per la maggior parte degli studiosi è un altro dei rituali facenti parte dell’ agoghè dei giovani spartani. C’è da dire che la certezza al 100% non c’è  su questi argomenti; li avrà utilizzati come più gli faceva comodo,  o come gli pareva meglio per il romanzo.
A metà libro si accenna anche al’omosessualità: capisco che all’epoca in cui è stato scritto  era ancora  tabù parlarne,  quando è risaputo che nell’Ellade era molto diffusa e praticata, sia tra adulti che tra educatori e giovani (ahimè sì), quindi anche se Manfredi ne parla in modo marginale e incompleto è stato pur sempre un passo avanti; anche qui è stato un precursore.
Il vocabolo per me più fastidioso  del romanzo è quando  scrive “Greci” anziché “Ellenici”, come si auto- chiamavano i Greci all’epoca. Perchééééé?!?
Anche se non ci sono molti colpi di scena, e a un lettore smaliziato potrebbe sembrare tutto poco originale (ma , ripeto, è stato scritto 30 anni fa) Lo scudo di Talos va letto perché riesce a immergere completamente il lettore in quell’epoca lontana, trasportandolo in tempi,  luoghi  e stili di vita lontani  e perduti, con uno stile accattivante e lineare.






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