lunedì 25 dicembre 2017


In occasione del Natale vi regalo questo racconto di genere paranormale, che ha partecipato al contest sul gruppo Facebook "Scrittori & lettori fantasy" per la pubblicazione su JobOk Magazine, classificandosi terzo. 
Le vicende narrate sono ispirate a fatti realmente accaduti a me medesima qualche anno fa...
Buone Feste !


                                               Gli “altri” sogni







Come ogni estate, anche quell’anno mi trovavo a trascorrere le vacanze nella cosiddetta  “la residenza estiva”, una villetta al mare  ereditata dai nonni,  situata a Lavinio, nei pressi di Anzio.
Le mie giornate trascorrevano tutte uguali: di mattina andavo in spiaggia di buon’ora, per evitare la confusione;  pranzavo a casa, facevo una pennichella sul letto e poi, nel pomeriggio, mi dedicavo alle letture, sdraiata nell’amaca tra due pini nel giardino, sorseggiando bibite fresche: unico brivido, le pigne che avrebbero potuto piovermi in testa da un momento all’altro. Prima di cena, una bella pedalata con la vecchia bici, tanto per ricordare al sangue di continuare a circolare, e in serata recupero delle serie tv che non avevo potuto seguire durante l’inverno.  Ogni tanto mi recavo in visita a qualche conoscente; il sabato sera una pizza e una birra  al solito ristorantino con i familiari, e la domenica mattina  una passeggiata nella Riserva di Tor Caldara,  in mezzo ai sugheri e ai lecci, passando tra canyon sulfurei dalle variopinte sfumature che digradavano dal bianco al bronzo, passando attraverso toni giallognoli. Al termine del tragitto si ergeva la Torre, che dopo cinquecento anni ancora proteggeva la costa da un eventuale nemico proveniente dal mare. 
Tor Caldara
Tutte queste giornate scandite  da ritmi lenti e attività immutabili provocavano in me una sorta di ipnosi da reiterazione, incrementata dall’incessante frinire delle cicale, colonna sonora di tutte le mie estati; nei giorni più caldi, l’inattività si faceva ancora più accentuata e il tedio aumentava.
Quella notte c’era un insopportabile caldo afoso e quando andai a coricarmi non riuscivo a prendere sonno, tormentata da umidità  e  zanzare. Stanca di rigirarmi nel letto, decisi di fare un giro notturno in sella alla mia bicicletta.
Percorrevo la via Ardeatina  pedalando vicino al guard-rail, con le macchine che sfrecciavano alla mia sinistra; la strada era pericolosa e a due sole corsie, con i bordi laterali sconquassati dall’eruzione delle radici dei pini marittimi. Questi alberi dai tronchi inclinati a causa delle  sferzate di vento intrecciavano le loro chiome lassù in cima, formando un tunnel naturale sotto il quale  pedalavo beata verso Anzio. Non avevo mai percorso in bicicletta quella strada data la sua  pericolosità, eppure invece di procedere con cautela volavo: le ruote sembravano neppure toccare terra. I rumori giungevano ovattati , le luci dei lampioni e quelle dei fanali delle automobili erano amplificate, con aloni enormi, come quando si va dall’oculista e ti inoculano l’atropina negli occhi per vedere cosa c’è in fondo al tuo sguardo. La luna era gigantesca, e il suo lucore creava una scia sul mare nero alla mia destra che sembrava un ponte verso l’infinito.
Prima del rettilineo imboccai una stradina laterale, un vialetto secondario sulla sinistra. 
Una scena terribile si materializzò davanti a me: un’automobile si era ribaltata  e una donna era restata intrappolata al suo interno tra le lamiere contorte! Scesi dalla bici al volo, abbandonandola con le ruote roteanti in mezzo alla strada, e mi precipitai a soccorrere la poveretta: non so con quale forza riuscii ad aprire lo sportello incastrato, a slacciare la cintura di sicurezza e a trascinar fuori la donna, che, seppur traumatizzata e dolorante, riusciva a camminare.

Quando mi risvegliai la mattina successiva, confusa e stordita, ripensai all’accaduto.
 Compresi che era impossibile percorrere l’Ardeatina quasi scivolando sull’aria, e neppure estrarre una donna dall’auto con le  mie sole forze era plausibile; ciò che era successo non poteva essere reale, e compresi di aver sognato.
 “Ma che strano sogno che ho fatto!”, pensai. Mi tirai su a fatica, ero più stanca della sera precedente e le gambe mi dolevano, come se avessi davvero pedalato a lungo. Preparai il mio caffelatte freddo, presi la pizza bianca e mi sedetti davanti alla tv per ascoltare il telegiornale regionale del mattino.
L’immagine che rimandava, col titolone sovrimpresso, era agghiacciante:
“Tragico incidente ad Anzio, donna muore in auto”. 
La pizza mi cadde di mano e non riuscii a parlare per alcuni minuti, tanto che anche mia madre si accorse del mio stato di shock; le raccontai così dello strano sogno che avevo fatto, lasciando anche lei basita.
Mi preparai in fretta per andare sulla spiaggia: volevo raccontare al più presto la vicenda a mia cugina Emilia, da sempre appassionata di paranormale. Forse lei poteva avere una spiegazione plausibile a riguardo.
Non si meravigliò più di tanto: mentre sguazzavamo nelle acque cristalline, appese a una boa lontane dalla riva, mi propose di contattare una signora di sua conoscenza, tale  Matilde Boschi, sensitiva e medium. Avevo già conosciuto in passato una donna con capacità empatico-precognitive, quindi non avevo riserve al riguardo e accettai con entusiasmo.

Matilde abitava nelle vicinanze di Nettuno, nell’entroterra, in una villetta celata allo sguardo dei curiosi dal verde rigoglioso del suo giardino. Ci accolse con uno smagliante sorriso sul suo viso curato e con poche rughe; l’età avanzata si percepiva dalle mani piene di macchie scure e un po’ adunche, per il resto camminava eretta e spedita ed era molto elegante nella sua semplicità: pochi gioielli vistosi, un prendisole a fiori e i capelli tinti di biondo raccolti in uno chignon.
Ci fece accomodare nel gazebo, abbracciato da roselline rampicanti; mentre ci offriva del the freddo in un servizio di porcellana inglese, più adatto al the caldo a dire il vero, mi spronò a raccontare il mio sogno.
Non mi feci pregare e raccontai l’accaduto con dovizia di particolari.
«Cosa sai dei sogni, bambina?» mi chiese.
«Beh, lasciando perdere tutte le implicazioni freudiane e junghiane, so che sono un’attività psichica che compie il cervello in fase di sonno REM: vediamo immagini, sentiamo suoni, rielaboriamo ciò che abbiamo vissuto, oppure viviamo i nostri desideri, o i nostri incubi peggiori…» risposi, tralasciando il fatto che ormai avevo quasi quarant’anni, altro che bambina!
«Negli ultimi tempi hanno anche stabilito che si sogna in fase non-REM, durante il sonno profondo: sono i sogni che non ricordiamo» puntualizzò Emilia, accendendosi una sigaretta.
«Freud ha affermato che i sogni sono una porta sull’inconscio; c’è andato vicino! » ridacchiò l’arzilla vecchietta. «Possiamo dire che sono un portale, un ingresso verso altri piani dell’esistenza. E poi i sogni non sono tutti uguali: ci sono quelli di rielaborazione, oppure  altri  in cui viviamo le nostre vite come vorremmo che fossero, o ancora incubi terribili… e poi ci sono gli “altri” sogni, quelli  in cui il corpo astrale si distacca dal corpo fisico e vola altrove. Questo mi sembra proprio il tuo caso» spiegò.
«Corpo astrale? Cos’è?» chiesi, incuriosita.
«Ma tu non sai niente, peggio di Jon Snow!» Emilia e io scoppiammo a ridere: anche l’arzilla vecchietta era fan del Trono di Spade! «Ci sono cinque corpi in ogni uomo, solo quello fisico è visibile, gli altri non lo sono. Questi sono: il corpo eterico, che è in soldoni la nostra energia vitale; il corpo astrale o emotivo, che può distaccarsi dal corpo fisico, ed è il tuo caso; poi ci sono il corpo mentale, cioè i nostri pensieri, e infine il corpo spirituale, ovvero l’anima»  spiegò. «Non c’entrano nulla i “sogni dell’Oltre” di Jojen Reed!» concluse, citando di nuovo la famosa serie di libri e telefilm.
«Ma perché questo mio corpo astrale è volato a salvare quella donna, riuscendoci, se invece nel mondo reale è deceduta? » domandai, più confusa di prima.
«Questo non lo so, ma un motivo ci sarà. Io mi chiederei perché proprio a te sia accaduto» rispose Matilde, versandomi dell’altro the.
«Ora mi sta mettendo paura» rabbrividii.
«Ma no, stellina! Tieni, mangia un biscottino. Li ho fatti io, eh! Sono all’anice!» Matilde mi porse la biscottiera di porcellana.
Sgranai una decina di biscotti in pochi secondi, con la tipica voracità di chi è molto nervoso.
«Per caso hai avuto un incidente stradale, in passato?» mi chiese, dopo qualche istante di silenzio.
«Sì! Come fa a saperlo? L’ho avuto qualche anno fa, sono stata in ospedale due mesi.»
Altra raffica di biscottini.
«L’ho percepito. Probabilmente sarai stata “richiamata” tu proprio perché avevi avuto un’esperienza simile. Perché non cerchi di scoprire di più su questa donna? Tutti i giornali locali hanno riportato la vicenda, con nome e cognome di quella poveretta. Pensaci.»

La sera riflettei molto sulla conversazione; presi il tablet  e iniziai un po’ di ricerche online, seduta sul divano a dondolo del mio giardino: un po’ sui sogni, un po’ sul “corpo astrale”, e un po’ riguardo la signora deceduta. Scoprii che il suo nome era Simona Marelli, vedova di soli quarant’anni, con due figli. Non sapevo cosa fare: chiamare i genitori della donna o peggio ancora i bambini mi sembrava un’invasione nella  privacy, un intromettermi del loro dolore e raccontare cos’era successo avrebbe potuto scatenare indignazione e turbamento, insomma mi potevano prendere per pazza.
Accantonai presto l’idea di comunicare con la famiglia della donna; anche Emilia era concorde riguardo il fatto di non disturbare la famiglia.
Il resto dell’estate scivolò via come sabbia tra le dita, anche se ogni tanto il pensiero di quel sogno “altro” mi turbava e  non mi abbandonava, neppure quando rientrai nella Capitale e ripresi il solito tran-tran quotidiano.

Era autunno inoltrato quando  dovetti recarmi al cimitero di Prima Porta.
Le foglie dorate frullavano nei mulinelli d’aria che si creavano  all’improvviso e fiori caduti dalle corone funebri delle persone appena sepolte adornavano anche i vialetti del camposanto oltre che le sepolture. Avevano appena tumulato una mia anziana prozia, Antonietta , e dopo il triste rito mi avviai verso un’altra area, dove giaceva mia nonna Costantina.
Durante il tragitto raccoglievo i fiori freschi abbandonati al suolo che incontravo sul mio cammino, finché lo sguardo non si posò su una lapide a forma di croce. Mi avvicinai, guardai bene la foto e sentii un tuffo al cuore: era lei,  Simona Marelli, morta ad Anzio il 7 agosto 2008.
 Percepii un ronzio alle orecchie e iniziò a girarmi la testa. Le mie gambe si erano fatte molli, e mi aggrappai alla croce.
«Grazie» udii dire alle mie spalle. La voce sembrava provenire dall’Oltretomba, e non era un modo di dire. Risuonava cupa e lontana, vibrava nella mia testa.
Mi voltai.
 Lei era lì, dietro di me, col volto disteso e sorridente.
«Perché mi ringrazi? Io non ti ho salvata. Non ti ho tirata fuori dalla macchina quella sera. Mi dispiace, non sono arrivata in tempo forse» le dissi, coi denti che mi battevano, e non per il freddo.
«Oh, no! Io ero destinata a morire quel giorno: tu hai estratto la mia anima, che era rimasta imprigionata tra le lamiere come il mio corpo. Una morte violenta provoca uno shock all’anima, che non riesce a distaccarsi.  Ora sto insieme a mio marito, sono serena. Dal luogo in cui mi trovo veglio sui miei figli. Grazie ancora! Addio!»
Quando ritornai in me, alcuni operai del cimitero mi stavano sorreggendo e scuotendo;  sopra e intorno a me erano sparsi ovunque i fiori che avevo raccolto.
«Signora… signora si svegli! Tenga, un po’ d’acqua.»
Rifiutai l’acqua, ringraziai e raccolsi i fiori che mi erano caduti di mano, spargendosi intorno. Guardai ancora un attimo la tomba di Simona Marelli, e mi  incamminai per la mia strada.
 Finalmente avevo avuto le risposte che cercavo.
Mi sentii in pace.









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