Un giallo storico ambientato nella Venezia dei dogi
Cari Serenissimi, Il signore di notte è un giallo storico ambientato a Venezia nel 1605, scritto da Gustavo Vitali e autopublicato.
Leggiamo una presentazione del romanzo:
Il 16 aprile 1605 in una
cadente casupola di Venezia viene rinvenuto il cadavere di un nobile ridotto in
miseria.
Sul luogo del delitto si
precipita il protagonista, Francesco Barbarigo, un aristocratico non privo
della boria di casta e che riveste la carica di Signore di Notte, sei
magistrati e insieme capi della polizia, sovraintendenti all’ordine pubblico in
città.
Persuaso dapprima di essere
all’altezza di risolvere il caso, invece affiora presto la sua assoluta inadeguatezza,
a partire dalla mancanza di esperienza. Altezzoso, pasticcione, goffo e perennemente
indeciso sul da farsi, si muove a casaccio, segue piste fantasiose, ma non ammette
la propria incompetenza, anzi, addirittura vorrebbe spargere una sicurezza
dalla quale è assai lontano. In verità si è arrogato il compito con
superficialità e presunzione e di questo non tarda a pentirsi. Finirà perfino
con il confidare nel caso tra tormenti e intemperanze.
Sull’onda dei suoi voli
pindarici il Barbarigo non si fa mancare nulla: indaga sul garzone che ha
scoperto il cadavere e sulla serva della vittima, per passare a una guardia
erroneamente ritenuta corrotta, a un mercante ebreo sospettato di usura, poi al
mondo dell’azzardo e infine a un pericoloso bandito al quale dà una lunga e
infruttuosa caccia. Tutti sarebbero gli assassini ideali perché hanno avuto
rapporti con l’ammazzato, ma i fatti li scagioneranno inesorabilmente, rimettendolo
ogni volta alla casella di partenza di un crudele gioco dell’oca.
Nel contempo in soccorso
dello sprovveduto arriva un capitano delle guardie che ha tutta l’esperienza
che a lui manca: Domenico Stella, una sorta di alter ego. Svolge anche il ruolo
tutt’altro che facile di mitigare gli eccessi del Signore di Notte e
instradarlo verso la meta senza offendere il suo smisurato amor proprio.
Mentre le indagini non approdano
da nessuna parte tra agguati, nuovi delitti e quelli che riemergono dal passato,
colpi di scena giunti a sovvertire anche le poche certezze acquisite, la trama
si infittisce ulteriormente. Si scopre che nelle tasche della vittima, Nicolo
Duodo, sono passati molti soldi, ma non se ne conosce la provenienza e stranamente
non l’hanno neppure levato dalla miseria. Nel ripercorrere la sua carriera
politica, il racconto si sposta a Murano dove il Duodo ha vissuto per un breve
periodo ricoprendo la carica di reggente dell’isola. Qui un’altra mano giunge
in aiuto dei due investigatori: è quella di Coriolano Benzon che ha sostituito
il Duodo come podestà. Tuttavia è Venezia a restare costante sullo sfondo,
quasi fosse la protagonista vera e muta.
I principali personaggi del
libro, a partire da Francesco Barbarigo, sono realmente vissuti all’epoca. Per
incastonarli al posto e al momento giusti nella vicenda, che al contrario è di
pura fantasia, l’autore ha dovuto affrontare un lungo lavoro di ricerca. Questo
aggiunge un valore documentaristico
a quello che comunque resta un giallo fitto
fitto.
Inoltre, in mezzo a tante
contorte e intriganti vicende, si
aprono spaccati della società veneziana del tempo, sui suoi usi e costumi,
leggi, aneddoti e altro ancora. Il lettore è messo dinanzi a questi brevi
accenni che, tuttavia, non interrompono la trama, ma la contestualizzano nel
mondo di allora, in particolare quello del ceto patrizio al potere. Si spiega
perché ci si sposava tra nobili e tutto il complicato rituale, perché a Venezia
si era arrivati a censire fino a dodicimila tra prostitute e cortigiane, i
devastanti effetti della diffusione del gioco d’azzardo, fino a leggende e
ricette di cucina. Dalla storia vera è stato ripescato lo stravagante motivo della
costruzione del palazzo dove il giallo troverà il suo epilogo. L’affondamento
di una nave e la perdita delle mercanzie trasportate, fatto realmente accaduto
e descritto in modo meticoloso, comincia a rischiarare il buio nel quale si
sono infilati lo Stella e il Barbarigo, ma non basta.
Nel contempo appare
sulla scena tutto un ventaglio di figure in mezzo ad accurate descrizioni di
luoghi e personaggi. Alcuni di costoro si muovono circospetti e con una
prudenza esagerata, come consapevoli dello splendore che si sono lasciati alle
spalle, perduto e irripetibile, ma incapaci di immaginare il lento e lungo
declino che li aspetta.
Ecco quindi ricconi
e chi vivacchia appena, burocrati e mercanti, sgherri e confidenti, bari e
frequentatori delle bische, nobildonne e rampolli di buona famiglia, categorie
emarginate quali gli ebrei e tanti altri. Poi figure sgradevoli come i “bravi”,
accomunati alla sbirraglia da un fare violento e sopraffattore perché il tempo tra
la fine Rinascimento e poi tutto il Barocco è anche il loro.
Il protagonista è descritto
come un uomo complicato, che soggiace al riemergere di vicende dolorose del
passato, incapace di liberarsene, attanagliato dalla costante preoccupazione di
salvare nome e onore del casato, oltre che la propria faccia. È l’opposto
dell’eroe positivo, dell’investigatore sapiente e acuto, figure dalle quali
volutamente l’autore si è tenuto alla larga. Con un linguaggio crudo,
dissacratorio, a tratti schernitore e sarcastico, il Barbarigo è sbeffeggiato
per la sua goffaggine e per gli esilaranti fallimenti.
Il ridicolo dei suoi
difetti e difettucci migra a quelli della società dell’epoca, ma non mancano
tratti celebrativi della grandezza della Serenissima, una grandezza durata
undici secoli, tredici secondo alcuni.
Per lo più Francesco, che
in ossequio alla tradizione deve restare scapolo in quanto primogenito di un
casato patrizio, finisce nel letto di una dama tanto bella quanto indecifrabile
e della quale nulla comprende. Vorrebbe che fosse una relazione disinvolta,
gusto per il proprio comodo, ma nel suo intimo si agita qualcosa di diverso e
temuto: l’innamoramento. È per lui una vera sfortuna oltre che fonte di nuove
angosce, perché questo sentimento lo ha già vissuto ricavandone solo dolore.
Intanto le indagini languono
e il Signore di Notte passa da una batosta all’altra. Alla fine il suo ruolo si
zittisce, riesce a mettere da parte l’arroganza e accodarsi allo Stella e al
Benzon che hanno preso in mano le redini della situazione. È una decisone
saggia che darà i suoi frutti, ma per dipanare la matassa servirà ancora
un bel pezzo e la confessione
di un testimone, non del delitto del 16 aprile, ma di un altro di qualche anno
prima.
Solo nel finale al
lettore appariranno tutti i tasselli, anche i più minuti, al posto giusto. Sarà
un epilogo del tutto inatteso, sorprendente e dal quale il Barbarigo risorgerà
come un uomo nuovo.
L'autore Gustavo Vitali ci fornisce un ampio estratto del primo capitolo:
Capitolo 1
Il
corpo esanime del nobiluomo Nicolo Duodo, settantotto anni, due volte vedovo,
famiglia annoverata tra le “Case Nove” nel Libro d’Oro della Serenissima
Repubblica di Venezia, giaceva bocconi disteso davanti al lungo tavolo ingombro
di carte e disposto in diagonale a chiudere un angolo della stanza.
Un
braccio piegato sopra il capo, con il palmo della mano rivolto in basso, era
rimasto appoggiato malamente al seggiolone in legno scuro, rovesciato con tutta
probabilità in seguito alla caduta dopo il colpo letale che aveva spedito
l’uomo a miglior vita. Altri due seggioloni identici, uno dirimpetto a quello
rovesciato, l’altro sul lato opposto del tavolo, quasi nel cantone della
stanza, erano rimasti al loro posto. La luce del giorno penetrava dalla
finestra in parte oscurata da un vecchio panno, poco più di uno straccio, messo
a sostituire un vetro rotto.
Il
colpo mortale era stato sferrato alla testa. Questa posava di lato nella vasta
chiazza di sangue sul pavimento, sangue fuoriuscito dal cranio, colato giù
lungo il collo e la faccia e andato a coprire le doghe consunte del parchetto.
Altro sangue sulla gorgiera e sul farsetto blu scolorito che mal si intonava
con le braghe color ocra; ancora sangue a impiastrare i capelli grigi e la
guancia appoggiata a terra. Qualche carta dal tavolo era stata trascinata dal
rovinare del corpo ed era finita sul pavimento.
Non
era difficile individuare l’arma che aveva ammazzato il Duodo: un pesante
candelabro a due bracci giaceva riverso poco lontano dal cadavere. Schizzi di
sangue andavano scemando sul parquet via via che si allontanavano dal corpo.
Due mozziconi di candele si erano sbriciolati nell’urto e le schegge stavano
sparse a terra insieme a grumi di cera.
Un
altro candelabro, copia esatta del primo, era rimasto al suo posto appoggiato
sull’angolo opposto del tavolo, trattenendo infimi moccoli di candela. La cera
squagliata era colata nei piattini sotto i sostegni prima di rassodarsi. Altre
gocce di cera mai rimosse incrostavano il piano del mobile e formavano un
cerchio attorno al basamento, simile a quello che indicava la posizione del
candelabro rovesciato. Sul tavolo c’erano qualche soldo d’argento, un
medaglione con uno stemma araldico, penne d’oca, un calamaio e tutto il
necessario per la scrittura: molti fogli di carta, lettere, manoscritti,
codici, stampe di leggi e decreti con alcuni libri. Una scodella con un
cucchiaio era appoggiata tra le carte e le mosche ronzavano attorno facendo
festa ai rimasugli di chissà quale brodaglia.
Il
Signore di Notte al Criminal, braghesse scarlatte a coscia di pollo, giubbone e
berretto alto di tono più scuro, tabarro sulle spalle, se ne stava a testa
alta, mento in fuori, mani dietro la schiena, ritto al centro della stanza
disadorna che pretendeva di conservare una qualche dignità con un paio di
quadri scadenti in cornici pompose. Si vedevano poi una spada schiavona, arma
con elsa a cesto prediletta dalle truppe degli schiavoni, mercenari dalmati al
servizio della Serenissima, senza particolari fregi appesa al muro accanto a
una libreria che doveva aver conosciuto fasti migliori. Un sofà trasandato e
qualche suppellettile non rimediavano affatto allo squallore dell’ambiente.
Dalle
maniche e dal bavero della giubba di Francesco Barbarigo, il Signore di Notte,
fuoriuscivano in bella mostra “lattughe” pieghettate con cura a guarnire polsi
e collo di una camicia bianca, quasi immacolata se non fosse stato per una
piccola ma fastidiosa e imbarazzante macchia di chissà cosa caduta su un polso
a deturparne il candore. Se ne era accorto dopo essere uscito di casa, troppo
tardi per rientrare a porvi rimedio.
Qualche
oggetto ornamentale di vago prestigio posava sull’architrave del camino,
insieme a un’ampolla di vetro opaco, a un mortaio di bronzo con il pestello
accanto, a un candeliere di porcellana e poco altro. Parte dell’intonaco era
cadente, soffitto basso, niente stucchi o affreschi, chiazze di umidità qua e
là lungo le pareti annerite dal tempo, dalla fuliggine e dal fumo del camino
che non veniva pulito da chissà quanto tempo.
Francesco
non avrebbe potuto definire miseria quanto stava osservando, ma di sicuro
grande decadenza. Lo stato precario dell’alloggio gli dava un disagio
amplificato da un fievole lezzo di marciume e di aria viziata. Provò fastidio
nel guardarsi intorno, ancor più quando osservò carte e stampati ammucchiati
alla rinfusa sui ripiani bassi della libreria e sul tavolo, manoscritti con
note scarabocchiate, cancellazioni e qualche macchia d’inchiostro su libri
contabili che segnavano solo zecchini da pagare. Provò altro fastidio di fronte
ai volumi impilati alla bell’e meglio, con i dorsi strappati e i titoli ormai
illeggibili, residui di opere che in precedenza avevano sfoggiato la loro
eleganza. Altri libri si mescolavano alla rinfusa tra le scartoffie, aperti tra
le carte, e lasciavano intravedere pagine sgualcite. Non mancava la polvere e
tanto, tanto disordine.
Inutilmente
l’Officiale di Notte difendeva narici e olfatto dal fetore con un grazioso
fazzoletto. La presenza di insetti era del tutto normale, anche se qui più
numerosi che altrove, ed egli non prestò alcuna attenzione a questi animaletti
compagni degli umani anche in dimore più agiate.
Lungo
una parete giaceva un divano parecchio malconcio, coperto alla rinfusa da
un nutrito campionario di cuscini di foggia, colori e dimensioni disparate,
segnati da macchie e macchioni, con i ricami sgualciti: non incoraggiava certo
a sedersi. Francesco si convinse definitivamente che, se quella non era
miseria, ben poco ci mancava.
Due calici, residui spaiati di
cristallerie ormai disperse, poggiavano su un tavolino accanto al divano: un
“servo muto”, sorridente e immobile, rappresentava un piccolo moro nel gesto di
porgere un vassoio al padrone. I bicchieri erano incredibilmente lindi come
pure l’ampolla posta accanto, finemente decorata, mezza piena di una qualche
mistura alcolica. Il Barbarigo levò delicatamente il tappo di vetro per
annusarne il contenuto, ma il forte odore gli risultò sconosciuto e richiuse
l’ampolla. Osservò meglio i calici, tendendo il braccio verso la luce che
penetrava dalla finestra, senza notare tracce di bevande o impronte di labbra.
Constatò pure come nessuna goccia fosse caduta a macchiare il tavolino. Nessuno
aveva bevuto da quei bicchieri.
All’ingresso
dell’abitazione che dava su Corte Loredan, e questa a sua volta sulla stretta
calle omonima in contrada di San Marcilian nel sestiere di Cannaregio, le teste
di alcuni sbirri facevano a turno brevi capolini ritraendosi di botto, avanti e
indietro, prima uno poi l’altro, senza osare varcare la soglia perché il
Barbarigo aveva vietato loro di entrare. L’intenzione avrebbe voluto garantire
che testimoni, tanto poco affidabili quanto loquaci, divulgassero poi voci
disparate e incontrollabili sul morto d’alto lignaggio a dispetto dell’alloggio
scadente e della miseria.
Non
sarebbe stato così, perché un omicidio in questa Venezia del 1605, sotto la
signoria del doge Marino Grimani, si sarebbe ben prestato al
pettegolezzo e alla morbosità del popolino, tanto più che la vittima era un
patrizio, sebbene con disponibilità economiche non all’altezza del rango, un
membro del ceto nobiliare che nella Serenissima Repubblica deteneva le chiavi
del potere. Tuttavia l’ordine aveva impedito agli sgherri di cedere al vizio di
rubacchiare frugando tra le cose del defunto, una consuetudine ben risaputa.
Cosicché, tolta la possibilità di allungare le mani su qualche misero bottino,
ai tutori dell’ordine era rimasta solo la povera soddisfazione di intrufolarsi
con occhiate furtive tra le miserie della casupola in cui un nobile aveva
condotto una dura esistenza scivolando lungo la china della povertà.
Il
resto della casa, un paio d’ambienti senza grandi fronzoli e nessun mobilio di
pregio, non appariva disordinato come la stanza del ritrovamento, segno
evidente di una mano amica che li teneva in ordine. Davvero strana abitudine,
pensò il Barbarigo, perché un visitatore sarebbe stato accolto nello stanzone
centrale, quello più lercio, tra polvere e disordine, certo non in camera da
letto o in cucina. Ma cambiò subito idea: forse al defunto non piaceva che gli
occhi di un eventuale domestico cadessero sulle sue carte. Oppure semplicemente
gli andava bene così.
Dalla
presenza del denaro sul tavolo e dall’uscio intatto il Signore di Notte pensò
di poter escludere il delitto di un ladro sorpreso all’opera, un furto finito
male, insomma. E poi, che tesori pensava di trovare un malvivente in quella
casupola? Escluse pure che l’intruso avesse rovistato tra i documenti, perché
il soqquadro della stanza gli parve cosa vecchia come la polvere sulle pile di
carta.
Nell’ambiente
che doveva fungere da cucina e dispensa tutto era riposto in buon ordine e
pulizia. Un letto ben rifatto confermava la presenza di un servitore, magari di
quelli tanto affezionati da seguire i padroni anche nella miseria, a
condividerne stenti e privazioni. O forse uno schiavo comprato quando le cose
andavano meglio e adibito a “famégio”, cioè a domestico, come la stragrande
maggioranza degli schiavi a Venezia. Ma il Barbarigo scartò subito l’idea che
un poveraccio come il Duodo fosse mai stato in condizioni di acquistarne uno.
Nella
camera padronale un ingombrante letto a baldacchino troneggiava tra due
seggioloni identici a quelli accanto al tavolo, con una cassapanca ai piedi e
un basso armadio di lato. Su cuscino e coperte l’impronta di un corpo che si
era adagiato senza infilarsi tra le lenzuola. Due ritratti degli avi di Nicolo
che sembravano guardarlo severi negli occhi stavano appesi alla parete in cui
si apriva la porta che dava sull’ambiente principale. Poca luce dalla finestra
per gli scuri rimasti accostati.
La
cassapanca gli ricordò d’averne vista un’altra in cucina, più grezza e che
aveva perso gran parte della tinta originale, un verde che da nuova doveva
essere stato sgargiante. Tornò in fretta nel locale per aprirla: ne uscì
qualche indumento femminile, un paio di lunghi camicioni dai ricami stinti,
corpetto e gonna per le grandi occasioni ancora in buono stato, un paio di
scialli bianchi, e altre cosucce.
Lasciò
ricadere il coperchio del baule e si precipitò all’uscio. Il rumore del botto
mise in rapida fuga uno sbirro più curioso degli altri che si era avventurato
poco oltre la soglia. Il Barbarigo chiamò a voce alta il capo contrada, che se
ne stava a bighellonare con le guardie.
«Dite,
missier!» rispose quello.
«La
serva ... la serva del nobile Duodo, sapete chi è costei?» incalzò il
Barbarigo.
«Si
chiama Apollonia, missier.»
La
donna si chiamava davvero Apollonia, “detta anche Polonia”, aggiunse quello
piccandosi di una precisione che non era affatto tale. Infatti rimase a bocca
aperta quando tentò di ricordare il cognome. Il Barbarigo sorvolò e diede
ordine di trovare questa Apollonia e di farlo in fretta. L’altro lo rassicurò
con un cenno del capo, una specie di mezzo inchino frettoloso. Poi chiese cosa
comandava il Signore di Notte riguardo al garzone che aveva scoperto il corpo
dell’ucciso, tale Ferruccio.
«…Ferruccio
Longheno, il figlio maggiore di…» stava tentando di precisare in vena di
riscatto, ma il Barbarigo tagliò corto e decise in un baleno di sentire questo
Longheno. Mentre si voltava per rientrare nella casetta cambiò repentinamente
idea: l’avrebbe convocato in seguito, non ora, disse in tono perentorio. Il
capo contrada annuì di nuovo con un altro cenno del capo.
Nel
primo mattino del 16 aprile 1605 i rari passanti lungo la fondamenta dei Mori
nei pressi di San Marcilian erano incappati con sorpresa nella corsa affannata
di un ragazzone, Ferruccio Longheno, figlio di una popolana rimasta vedova dopo
aver perso il marito in mare. Ferruccio si guadagnava il pane come garzone di
un bottegaio della stessa contrada di casa Duodo.
Il
ragazzo era balzato fuori all’improvviso dalla stretta calle Loredan, correndo
come un ossesso e liberandosi da chi tentava di trattenerlo. Ansimava forte e
dalle sue parole non si era capito nulla dell’accaduto, perché ora erano grida,
ora farfugli. C’era voluto del bello e del buono per ricondurlo a un minimo di
calma e fargli raccontare del ritrovamento di Nicolo Duodo ormai cadavere.
L’agitazione di Ferruccio aveva attirato l’attenzione di altri passanti, poi
qualcuno si era infilato nella casa del morto indicata dal garzone.
La
fortuna volle che uno dei capi contrada abitasse lì vicino e accorresse in
breve tempo, buttato giù dal letto dalle urla sguaiate di un bottegaio corso
sotto casa sua per metterlo in allerta.
Fin
dai tempi più remoti l’ordine pubblico in città era affidato principalmente ai
Signori di Notte al Criminal, magistrati e al contempo capi della polizia. Nel
corso dei tempi questi erano aumentati da due fino a sei patrizi eletti dal
Maggior Consiglio, uno per sestiere. Alle loro dipendenze altrettanti capi
sestiere, pure questi scelti tra i membri del patriziato. A costoro erano stati
in seguito affiancati due responsabili per ciascuna contrada, i capi contrada,
anticamente al comando di milizie popolari dette “duodenae” perché costituite
ciascuna da dodici uomini, pronte a intervenire soprattutto in casi di
particolare turbamento dell’ordine pubblico.
Successivamente,
agli originari capi sestiere ne erano stati aggiunti altri sei eletti dal
Consiglio dei Dieci: una serie parallela alla prima con mansioni di polizia di
concerto e talora in concorrenza con i Signori di Notte, nonostante dipendesse
da questi ultimi.
A
questi si erano aggiunti i Cinque Savi della Pace, magistrati ai quali spettava
di perlustrare le calli a capo di altre guardie armate per reprimere risse e
punire chi fosse stato sorpreso a portare armi senza autorizzazione. In pratica
con analoghe funzioni dei Signori di Notte e come questi eletti nel ceto
patrizio, ma restavano questi ultimi l’autorità primaria posta a controllo
dell’ordine pubblico nel territorio urbano.
Nel
giorno in cui fu scoperto il cadavere di Nicolo Duodo i capi sestiere avevano
cessato di esistere da una sessantina d’anni, sostituiti dai Signori di Notte
al Civil, sempre nobili e sempre uno per sestiere. A costoro erano state
attribuite competenze civili e penali: procedere contro inquilini morosi e
sfratti, frodi commerciali, mancata consegna di merci, esami di testimoni
richiesti all’estero, esecuzioni di sentenze straniere, vendita di pegni,
facoltà di bandire dalla città i malavitosi, arrestare i banditi, gli omicidi,
i ladri, i feritori, le meretrici, perseguire le ingiurie e altro ancora.
Era
rimasta ai Signori di Notte al Criminal una più specifica competenza per le
indagini di polizia e la facoltà di procedere in istruttoria contro delitti di
sangue, porto d’armi, reati carnali dei servi, bigamia, assassini, ladri,
vagabondi, perseguire i delitti contro proprietà, onore, buon costume,
stregonerie, filtri, malefici, stupro, percosse, associazione a delinquere e
sorvegliare le danze notturne. Per alcuni reati procedevano direttamente al
giudizio, mentre per altri intromettevano i processi ai Giudici del Proprio.
Qualcuno
sosteneva che tra tanta gente, con tanto di titoli e titoloni, confusione e
conflitti di competenza fossero all’ordine del giorno, in un guazzabuglio di
sovrapposizioni d’incarichi e attribuzioni dal quale si doveva penare per venir
fuori. Non era del tutto vero, sebbene in tema di ordine pubblico avessero
parola anche l’Avogaria de Comun, i magistrati della Giustizia Nuova, gli
Esecutori Contro la Bestemmia e altri ancora.
Appena
giunto sul posto questo capo contrada, persona esile, piccola di statura e dal
carattere mite, prese Ferruccio e lo tirò da parte con le buone. Il garzone
riuscì a spiegare l’accaduto: aveva scoperto il cadavere di un cliente del
bottegaio suo padrone. Tutto qui, ma lo spavento era stato grande.
Il
capo contrada non perse tempo e mandò un volenteroso ad avvertire il suo
collega, mentre ne “arruolava” in fretta e furia altri quattro. Questi furono
messi a guardia all’uscita di calle Loredan su fondamenta dei Mori; erano fin
troppi, visto il budello talmente stretto da lasciar passare a fatica due
persone fianco a fianco. L’ordine tassativo era di allontanare chiunque in modo
che non un’anima si intrufolasse nella corte. Non fu quindi un gran problema
bloccare l’accesso al luogo del delitto, visto che la calle non aveva altri
sbocchi.
L’altro
capo contrada e i suoi uomini non si fecero attendere e presto un manipolo dal
passo deciso e dall’aspetto baldanzoso scavalcò il ponte che dava sulla
fondamenta, poco più che una passerella di assi allungate tra le due
rive. Al centro si trovava una barca sulla quale le assi poggiavano a formare
una cosiddetta “tola”, potendosi levare rapidamente per lasciar passare i
natanti.
Quegli uomini vestivano braghe e farsetti ampi in prevalenza di colore
scarlatto, con larghi tagli sulle maniche, mentre i calzoni erano allacciati in
vita da stringhe che si intravedevano sotto la fascia di cuoio, cui era appesa
la spada, calze fin sopra il ginocchio, in testa un berretto nero.
A
differenza del collega, questo capo contrada era decisamente altezzoso: fisico
tarchiato e grossa testa a sorreggere una vecchia berretta a tegame rovesciato
che aveva perso ogni lustro fino ad apparire ridicola se paragonata ai
copricapi all’ultima moda. Tuttavia, la portava con una certa fierezza perché
era tutto ciò che restava del tempo, molti anni prima, in cui le fortune della
sua famiglia erano state ben diverse e sostanziose. In seguito gli affari erano
andati male, sempre peggio, e ora si trovava ridotto a vivere in uno stato che
gli riempiva l’animo di cattiveria e di malevolenza verso il mondo intero, un
mondo che ai suoi occhi appariva avvantaggiato da una fortuna a lui negata.
Pelle
scura, barba incolta, atteggiamento tra il tracotante e il furbesco, occhio
vigile a scrutare intorno quasi a voler acchiappare pure il volo di una mosca,
un mezzo sogghigno stampato sulle labbra, sembrava compiaciuto della
situazione. Irruppe dunque sul palcoscenico dell’omicidio nella parte di
protagonista che si era già assegnato.
Scostante
e borioso, i suoi modi mutavano bruscamente fino a sfoderare
l’atteggiamento più prono quando era giocoforza confrontarsi con qualcuno più
in alto di lui. Questo
misto di arroganza e prevaricazione con i sottoposti, cui facevano da
contraltare remissività e deferenza verso i potenti, era mal digerito dai primi
che non sopportavano affatto di essere trattati con disprezzo e supponenza,
neanche fossero stati tutti stupidi e malfidati. In compenso, i secondi
raramente cadevano nella trappola dell’ossequio.
L’altro
parigrado, scaraventato dritto dal sonno in una storia di sangue, fu presto
fagocitato dal gradasso. Non trovò di meglio che ritagliarsi il ruolo
dell’eterno consenziente, più spesso muto che interlocutore, sperando in cuor
suo che finisse presto.
Nel
trambusto di quella mattina il prepotente non perse occasione di fare sfoggio
di tutta la sua protervia. Si rivolse ai presenti con sguardo astuto, anche se
non era affatto scontato che lo fosse, e volle sapere ogni particolare,
ripetendo più volte le stesse domande con l’intento di trarre gli interrogati
in contraddizione. Osservava le reazioni tra il diffidente e il beffardo, alla
ricerca di un aggancio da sfruttare a suo comodo per dimostrare quanta poca
cosa fossero loro e quanto abile a capire, dedurre e spiegare fosse invece lui.
Rincarò
la dose quando fu la volta di Ferruccio Longheno, sottoposto a una raffica di
brusche domande condite da pesanti minacce. Lo prese per le vesti, volarono
accuse e perfino un paio di ceffoni. Il tutto saltando di palo in frasca e
spesso ghignando sospettoso alle balbettanti risposte del poveraccio, che quasi
sembrava un reo in atteggiamento di chiedere clemenza a un giudice spietato.
Che ci faceva lì? Chi lo aveva mandato? Com’era entrato in casa Duodo? Dov’era
la cesta delle vivande? Era venuto da solo? E via dicendo. A nulla valse tanto
accanirsi: i fatti nudi e crudi recitavano inequivocabili che il povero garzone
aveva rinvenuto il corpo di uno sventurato. Niente di più.
Nel
frattempo, i guardiani occasionali messi a sbarrare l’ingresso di calle Loredan
erano stati rilevati da un paio di guardie. Un’altra coppia si era messa a
presidio dell’ingresso della corte sulla calle. Un ulteriore varco sul lato
opposto dava dritto su un canaletto ed era chiuso da inferriate, quindi senza
bisogno di custodi.
I
due capoccia entrarono nella corte trascinandosi dietro il povero Ferruccio che
ancora non si era ripreso dalla dura inquisizione e, bianco in viso come un
cencio, non mostrava affatto voglia di seguirli. Finestre e usci delle casupole
che davano sullo spiazzo erano tutti un affacciarsi di donne, mamme con i pupi
in braccio, uomini vecchi e giovani, fanciulle e bambini, la morbosità dipinta
sulle facce insieme alla preoccupazione di restare coinvolti nel fattaccio. Si
sentivano al sicuro tra le proprie mura e nessuno si azzardava a uscire in
cortile, dove si contavano solo sbirri. Eppure nessuno rinunciava a sbirciare
da finestre e finestrelle.
Il
ragazzo si limitò a indicare l’uscio di casa Duodo, guardandosi bene
dall’entrare per non ritrovarsi ancora il morto davanti agli occhi. Vi
entrarono invece i due responsabili della contrada: un’“acuta” deduzione del
gradasso ipotizzò che il cadavere fosse proprio quello del padrone della
dimora.
Il
primo e docile capoccia se ne stette zitto, lasciando prendere una decisione al
burbero collega. Questi aveva perso gran parte della sua sicumera e non sapeva
cosa fare: interrogare i vicini, perquisire la casa, torchiare ancora il
garzone, oppure scaricare il tutto su chi gli stava sopra? Senza degnarsi di
interpellare il compagno, scelse la seconda e più comoda soluzione a scanso di
possibili grattacapi visto il rango della vittima e la gravità del fatto. Gli
sibilò, quasi fosse stato un subalterno, di mandare qualcuno ad avvertire i
Signori di Notte. L’altro si precipitò a eseguire l’ordine.
Nell’attesa
che arrivasse chi di dovere a farsi carico delle indagini, il primo sperando di
levarsi dagli impicci e l’altro per levarsi dai piedi il prepotente, i due si
posero a guardia dell’uscio. La posta fu di breve durata perché il gradasso
mutò parere e decise di svolgere qualche accertamento per conto suo, tanto per
non presentarsi a mani vuote a chi sarebbe subentrato e magari subirne il
biasimo. Sguinzagliò le guardie a interrogare il vicinato, che fu lesto a
rintanarsi in casa. Gli sgherri dovettero bussare forte e chiamare porta per
porta; urlarono contro chiunque capitasse a tiro ponendo una ridda di domande
con tono tanto minaccioso che riuscì solo ad aumentare il timore dei popolani.
La curiosità della corte si dissolse come per incanto e nessuno rimase a far
capolino.
Al
contrario, le cautele prese per tener lontano la gente da calle Loredan si
erano rivelate quanto mai opportune. Infatti, con l’avanzare della mattinata,
San Marcilian era andata via via animandosi. Com’era prevedibile, la notizia si
era sparsa ovunque e calli, campielli e fondamente circostanti erano diventati
tutto un vociare di cittadini che, abbandonate dimore, botteghe e pure gli
affari, si erano affrettati incuriositi verso il luogo del misfatto. Non ci
volle troppo perché molta gente si radunasse dove la calle sbucava in
fondamenta dei Mori, proprio dove poco prima era stato intercettato lo
sconvolto Ferruccio.
La
folla era variopinta perché tra i popolani erano d’uso abiti coloratissimi,
soprattutto nelle vesti delle donne dove il rosso spadroneggiava sulle altre
tinte. Colorate erano pure le “tonde”, cioè i grembiuli, le “carpette”, sottane
in tessuto di Damasco molto diffuse e indossate sotto le “soprane”, ovvero le
vesti di sopra di velluto liscio e monocolore. Di colori vivaci pure i corpetti
chiusi davanti da un cordoncino. Da poco il pesante busto di ferro a punta,
ritenuto responsabile di danni fisici alle donne gravide, era stato soppiantato
da quello a stecche di legno o d’osso, universalmente indossato da adulte,
ragazze e bambine. Quasi tutti bianchi i “ninzioleti”, sorta di mantelline di
tela fine o di mussola a coprire capo e spalle.
Note
di colore, ricami e preziosi ornamenti contrassegnavano anche gli abiti
maschili di panno, di velluto, di raso e altre stoffe ancora, secondo lo stato
di chi li indossava. Le braghe erano entrate da tempo nell’uso comune relegando
le calzebraghe d’altri tempi, una sorta di calzamaglia portata da uomini di
ogni ceto, a essere indossate al di sotto oppure sostituite da calze lunghe
fino sopra il ginocchio. Le camicie dei benestanti, bianche e increspate,
chiudevano il collo con la gorgiera, un colletto pieghettato e rinsaldato con
amido o stecche.
Il
vociare della folla si spegneva d’incanto verso l’imbocco di calle Loredan,
dove una silenziosa attesa era rotta solo da sommessi brusii. C’erano ricchi
mercanti e signori, facilmente distinguibili dai giubboni finemente lavorati,
dai berretti alti e dai tabarri lussuosi, che assistevano da lontano e con
ostentato distacco senza mischiarsi al popolino, dissimulando per dignità di
ceto il morboso interesse. Mormoravano tra loro più che parlare, mentre altri
sopraggiunti andavano ad aggregarsi e chiedevano notizie a bassa voce e
ottenendo risposte del tutto vaghe.
I
passanti della prima non si stancavano di ripetere e ripetere ancora del
Ferruccio che correva agitato, che non riusciva a parlare per il grosso
spavento e che ora era trattenuto dalle guardie. Qualcuno aveva cominciato a
lavorare di fantasia e il ragazzo era già dato per arrestato, rinchiuso al
“cason”. No, anzi, era fuggito. Come? Con l’aiuto di complici. No! Preso dalle
guardie e ferito. Naturalmente non mancavano insinuazioni malevole, che
mandarono in soffitta ogni riguardo verso l’innocente garzone.
L’arrivo
di Francesco Barbarigo non era stato del tutto celere. Intanto, per portare la
notizia del ritrovamento del cadavere alle Prigioni Nuove, l’emissario dei capi
contrada aveva corso per mezza città che i veneziani chiamavano “tera”. La
parola sembrava dettata dal fatto di stare con i piedi all’asciutto sebbene
circondati da acqua, ma non era affatto così. In realtà, questo vocabolo
rappresentava la percezione e l’individuazione di Venezia come massimo sunto
dello stato, la Terra di San Marco. Fuori dalla città e dal Dogado, vale a dire
la ristretta fascia litoranea attorno alla laguna, gli altri territori della
Serenissima erano domini dove esistevano sudditi, non cittadini. Ma tutto ciò
non era affatto nella testa dell’uomo sudaticcio e trafelato che quella mattina
si era fatto largo tra la folla che ingombrava calli e campi cercando di
abbreviare la strada, di spicciarsi, saltando da un traghetto all’altro per
attraversare i canali più grandi e infine il “canalasso”, il Canal Grande.
I
traghetti erano barche a uso pubblico che collegavano i vari punti della città.
La licenza di possedere una barca pubblica si chiamava “libertà di traghetto” e
apparteneva a un padrone che la usava in proprio o l’affittava ai barcaioli. Di
questi, meno di dieci anni prima ne erano stati censiti 1741, inquadrati in
“fraglie”, vale a dire una struttura corporativa come le arti e i mestieri.
Infatti ogni traghetto aveva la sua “mariegola”, cioè il proprio statuto, ed
eleggeva un “gastaldo” a rappresentarlo per un anno. Per percorsi lunghi, fino
a Marghera, Padova, Treviso, Portogruaro, Vicenza e Verona, erano in servizio
barche munite di vela, i “traghetti da viaggio”. In tutto erano stati contati
circa diecimila natanti tra grandi e piccoli, adibiti a uso privato o pubblico,
per merci e passeggeri, gondole comprese. La categoria dei gondolieri, una
razza tradizionalmente linguacciuta e rissosa, era sempre stata numerosa, ma in
barca ci dovevano andare tutti non avendo altre vie che quelle d’acqua.
Il
messaggero aveva fretta, ma aveva cercato di risparmiare qualche soldo correndo
di più e navigando di meno, fino all’ultimo traghetto, uno dei quindici in servizio
per attraversare il canalasso sul quale esisteva un solo ponte, quello di
Rialto, troppo lontano per gambe troppo stanche. Si era quindi rassegnato a
pagare il rituale “bagattino”, uno spicciolo di rame e tariffa per il passaggio
stabilita dalla Giustizia Vecchia, ennesima autorità della galassia delle
magistrature. Finalmente era riuscito a raggiungere le Prison Nove, mezze
finite e mezze no, dove al primo piano i Signori di Notte avevano la loro
stanza con obbligo di riunirsi a partire da mezzogiorno fino al tramonto.
Conosciamo l'autore dalle sue stesse parole:
Sono nato a Milano il 4 agosto.
Non dico l’anno perché al riguardo sono un tantino
ritrosetto ...
Da oltre trent’anni vivo nella bergamasca dove mi sono sposato
con due figli, Federico e Claudio.
Istruzione: liceo scientifico e scienze politiche. Nessuna
lode particolare: “È un ragazzo intelligente, ma non si applica abbastanza!”
l’invariabile, ancorché poco appagante, giudizio dei miei insegnanti. Cosicché anni
dopo la tesi di laurea è finita in soffitta, complice l’attività di famiglia,
poi mia, dalla quale sono stato risucchiato. Ho anche fondato e diretto per una
dozzina d’anni una rivista di settore,
Passioni: il volo in parapendio ultima in ordine di tempo,
cosa che mi ha portato a ricoprire da anni il ruolo di ufficio stampa nella
FIVL (Associazione Nazionale Italiana Volo Libero – parapendio e deltaplano).
Ovvio che non è stata la passione per il volo a spingermi a scrivere
“Il Signore di Notte”, un giallo ambientato nella Venezia dei dogi! Lo è stata,
invece, quella per la storia, da sempre. Ricordo che da ragazzino preferivo i
sussidiari ai fumetti e leggevo la storia antica come fosse un romanzo
d’avventura. Il vizio è rimasto in giovinezza e poi oltre, fino a oggi. Però
come sia sorto l’interesse per la storia dell’antica Serenissima in particolare
non saprei dire. Fatto sta che ho cominciato a leggere autori come Alvise Zorzi
e altri storici che si sono occupati della sua storia lunga undici, forse
tredici secoli.
Quindi sono un lettore a senso unico: storia e ancora storia
con qualche deviazione per la letteratura gialla. Classici quanto basta: I
Promessi Sposi e I Miserabili (in francese!) me li hanno fatti ingozzare al
liceo insieme a qualche cantico della Divina Commedia da recitare poi a memoria.
Scampato all’Orlando Furioso. Poi ho affrontato Addio alle Armi, ma ho
resistito solo fino a metà del libro, ancora meno Guerra e Pace. Divorati
Granzotto & C.
Congiunto alla passione per la storia, il vizio di non saper
trattenere la penna dalla carta, ai tempi. Oggi neanche i
ditini dalla tastiera. Prima la stilografica, poi la Olivetti “lettera 32” e
infine con il personal fin dagli anni ’70, quando costavano un botto.
Ecco perché “Il Signore di Notte” è insieme un racconto
giallo con brevi riferimenti storici, una trama inventata, ma i personaggi sono
vissuti davvero nel 1605, l’epoca dove l’ho ambientato. Grande soddisfazione.
Contatti: sito ufficiale – pagina facebook
Recap
- Titolo: Il signore di notte
- Autore: Gustavo Vitali
- Genere: Giallo storico
- Editore: self published
- N. di pagine: 518 (variabili a seconda dell'edizione)
- Prezzo: € 19,79
- ebook: € 9,99
- Link: Amazon