giovedì 8 marzo 2018

RACCONTO: BRENGANIA di ALESSANDRA LEONARDI





Questo racconto è uno dei primi che ho scritto, ma finora è rimasto inedito. Narra della nota vicenda di Tristano e Isotta dal punto di vista dell'ancella di quest'ultima, Brengania, in maniera riveduta e corretta.


                                        

 L’imbarcazione che mi avrebbe condotto alla mia nuova vita fendeva veloce le acque marine, sospinta da una brezza primaverile che gonfiava le grandi vele e mi scompigliava i capelli rilucenti al sole,  mentre lievi spruzzi irroravano il mio viso; a me sembrava  che fosse ferma, tanta era la frenesia di andare incontro al futuro.
Ho sempre ritenuto che la sorte di ogni essere umano fosse determinata e immutabile, e che per quanti tentativi noi facessimo per cambiare il nostro destino, la nostra strada fosse ineluttabilmente segnata sin dalla nascita.  Io e mia madre , Fiona, vivevamo in una casetta di legno nella foresta; lei si guadagnava da vivere come erborista e io la aiutavo a trovare, scegliere e pulire le piante che cercavamo nel bosco, necessarie per le sue pozioni. Era talmente brava che la regina Maeve in persona l’aveva scelta affinchè le procurasse le erbe per i suoi filtri magici, dato che lei stessa era una potentissima maga. Grazie a ciò, potevamo condurre una vita priva di stenti: avevamo tutto il necessario per nutrirci, vestirci e riscaldarci. Però ogni volta che mi capitava di vedere una nobildonna, un cavaliere oppure sontuose carrozze, per non parlare del castello che  scorgevo in lontananza, magnifico con le sue torri, le sue mura merlate, le bandiere che sventolavano, sentivo che mi mancava qualcosa e non comprendevo perché anche io non potessi godere di tutta quella bellezza, perché non potessi vivere una vita agiata, priva di crucci e della fatica del lavoro,  libera. Soltanto perché ero la figlia di una donna che viveva nel bosco?
Circa mio padre, mia madre non ne parlava mai, mi disse solo che era morto. Non voleva rispondere ad altri quesiti. Quando fui un po’ più grande, fui scelta dalla regina come ancella di sua figlia Isotta, poco più grande di me; pensavo che la mia vita a corte sarebbe stata piena di divertimento, immersa nello sfarzo e nell’agiatezza, ma mi sbagliavo. Di certo non mi mancava il cibo, né gli abiti di seta e broccato, tuttavia  ero costretta a stare sempre alle dipendenze della principessa e ad assecondare ogni suo volere: rimpiangevo la mia vita libera nei boschi, insieme a colei che mi aveva allevato. Isotta era bellissima, come sua madre la regina e, crescendo, mi accorsi che le somigliavo: simili capelli dorati, occhi della stessa tonalità d’azzurro, stessa corporatura snella. Era anche gentile, seppur capricciosa, dolce ed educata. Sua madre le insegnava i primi rudimenti su filtri e pozioni magiche e voleva che assistessi anche io alle lezioni: ero molto più brava della figlia, e per questo mi stimava. Ma ero pur sempre una ancella che doveva ubbidienza e devozione.
L’arrivo di Tristano a corte fu l’inizio di tutto. Il principe di Leonois era il nipote di re Marco di Cornovaglia, che era costretto a  pagare un tributo di giovani vite al nostro regno, l’Irlanda, impostogli dal nostro  sovrano; Tristano sconfisse però il principe Moroldo, lo zio paterno  di Isotta, per por fine a questa terribile imposizione. Venne tuttavia ferito nel duello, e Isotta stessa lo curò coi nostri rimedi erbali, nonostante fosse l’assassino dello zio. Tristano, benché malato, affascinò tutti a corte con le sue maniere gentili e la sua abilità come musico e cantore; inoltre il re Brian decise che, una volta guarito, Tristano avrebbe posto fine al tormento del nostro regno.
Il terribile drago a cui versavamo i tributi umani doveva essere ucciso da lui.
 Il giovane principe  riuscì nell’intento. Un simile eroe, bello coi suoi capelli corvini e lunghi e lo sguardo dolce ma sempre velato di tristezza, colto, forte ed affascinante, non poteva che essere amato da tutte le dame del regno; inoltre  era anche erede al trono di Cornovaglia, poiché il re Marco al momento non aveva figli, sarebbe potuto dunque essere  un degno marito per Isotta. 
La regina Maeve aveva un altro piano per la principessa sua figlia.
 Mi incaricò un giorno di prendere dal pettine di Isotta un capello, lo impregnò di un arcano sortilegio e incantò una rondinella affinchè lo portasse nel suo beccuccio  al re Marco, che l’avrebbe trovato e avrebbe deciso, in balìa del sortilegio, di sposarne la proprietaria, pur non sapendo chi fosse. Nei piani di Maeve, la figlia avrebbe dovuto essere subito regina, non coniuge di un principe che, in caso di matrimonio e nascita di un erede del re Marco, non sarebbe più stato il primo in linea di successione.
Tristano così lasciò l’Irlanda, per tornarvi poco dopo a prendere Isotta e condurla a Tintagel, affinchè sposasse suo zio il re Marco e divenisse regina di Cornovaglia.
Quel giorno Maeve mi convocò nelle sue stanze e, presami da parte, mi comunicò che sarei andata con la principessa; mi diede una fiala contenente un filtro d’amore da versare nel calice degli sposi affinché la loro unione fosse stabile e sicura.  Mi diede anche un baule contenente molte erbe per filtri e incantesimi e un grimorio. Si raccomandò infine che Isotta non utilizzasse più incantesimi, una volta divenuta regina. Chiesi il permesso di andare a salutare  mia madre, che non vedevo da tempo, nella casetta del bosco. Mi fu concesso.
Quando giunsi a cavallo alla radura nel bosco ove sorgeva la nostra casa, la trovai distesa sul letto, gravemente malata, non accudita da nessuno , sporca e denutrita. Mi spiegò che aveva contratto una malattia che la stava corrompendo da dentro, forse causata da tutti gli incantesimi che aveva compiuto in questi anni:
«Brengania -mi disse ansimando- la magia non è mai priva di conseguenze. Se prendi qualcosa, se modifichi il naturale corso delle cose , devi pagare un prezzo. La tua energia viene risucchiata, la tua linfa vitale si disperde, e il tuo sangue si corrompe. Non praticare più incantesimi sulle pozioni d’ora in avanti, prepara solo semplici decotti e rimedi.»
«Ma madre, la regina Maeve è una potente maga e  anche sua figlia sembra esserlo, ma sono giovani e sane» ribattei.
«Isotta in effetti ha solo sedici anni e non pratica molti incantesimi; Maeve resta giovane perché utilizzava il sangue dei  tributi umani che dava in pasto al drago, ma vedrai che ora inizierà a invecchiare in fretta anche lei, non avendo più vittime» spiegò.
«Madre, io devo partire per sempre con Isotta, che andrà in sposa al re di Cornovaglia… ma come posso lasciarti qui a morire da sola?» mi disperai.
«La mia vita ormai è segnata, e la morte imminente ed inevitabile. Ma tu devi sapere una cosa. Dammi una mano.» Ubbidii, preoccupata e curiosa, mentre lei volgeva verso di me uno sguardo velato e spento, e proseguì:
« Io non sono la tua vera madre. Ti sei mai accorta di quanto somigliassi a Maeve e ad Isotta? Ebbene, Maeve dopo la nascita di Isotta partì per un lungo viaggio, e dopo due anni tornò con te nascosta in un fagotto. Passò da me per lasciarti in mia custodia, ma non mi rivelò chi era il padre della neonata. Mi disse di allevarmi come fossi mia figlia, e che non ci sarebbe mai mancato nulla.»
A quel punto i miei occhi si velarono di lacrime, l’aria sembrava mancarmi, e lo stomaco iniziò a dolermi. Ero una bastarda, una figlia illegittima, ma pur sempre figlia di una sovrana, e mi era stato tenuto nascosto per tutta la mia giovane vita.
«Non piangere-mi consolò Fiona- io ti ho amato davvero come una figlia. A modo suo anche Maeve ti ha amato, prendendosi cura di noi e volendoti infine a corte.»
«Si, ma sempre come serva» singhiozzai io.
«La tua sorte poteva essere ben peggiore. Una nascita fuori dal matrimonio, per giunta di un reale, è un’onta spesso cancellabile solo col sangue. Pensa che tutti coloro che accompagnarono Maeve nel viaggio, e che in qualche modo vennero a conoscenza della gravidanza e della nascita, sono stati uccisi… Io stessa dovetti preparare i veleni necessari. Non macchiarti di orrendi delitti anche tu, te ne prego, figlia mia! E taci sulle tue origini.»

Mi gettai tra le sue braccia singhiozzando, e rimasi così finché il sole sparì dietro l’orizzonte, mentre colei che mi aveva fatto da madre esalava il suo ultimo respiro. Allora mi feci coraggio, presi la sua collana con un ciondolo di ametista in suo ricordo, sparsi sul suo corpo delle polveri profumate, e infine  purificai la casa dandole fuoco, recitando  antichi versi mentre guardavo la pira, finché non si spense del tutto. Era ormai l’alba e rientrai nel castello. 
La partenza era prefissata per la mattina successiva. Il re, la regina e tutta la corte vennero a salutarci; quando Maeve mi guardò negli occhi, capì che io sapevo. Ma non disse nulla, e neppure io.

Sull’ imbarcazione che ci conduceva verso la Cornovaglia, presi una decisione. Non volevo più essere una servitrice, inchinarmi di fronte ai nobili, chiedere il permesso per ogni cosa. Ero d’altronde figlia di una regina, sebbene bastarda: la mia sorte segnata dalla nascita sarebbe mutata. Guardai il flaconcino col filtro d’amore e decisi di versarlo nei bicchieri di Tristano e Isotta. Di sera  durante cena mi fu facile, mentre versavo loro il vino, instillare le gocce della pozione nei loro bicchieri, poiché nessuno faceva caso ai gesti di una ancella. Inoltre tutti erano incantati ad ascoltare le parole di Tristano, che narrava le sue gesta eroiche e di come avesse ucciso il drago; Isotta lo guardava estasiata. Forse non c’era nemmeno bisogno del filtro per farli innamorare, ma Isotta non avrebbe mai giaciuto con un altro uomo prima delle sue giuste nozze, ed essendo onestissima  neppure dopo in realtà, rendendo così necessario il mio intervento: una piccola spinta affinché la passione divampasse,  tanto da non poter tornare più indietro. Il filtro fece senz’altro il suo dovere, poiché gli sguardi dei due mutarono all’unisono, si accesero di un amore incontenibile e di una passione irrefrenabile, che spense loro la voce e fece brillare i loro occhi.  Per la prima volta da quando lo avevo conosciuto la tristezza nello sguardo di Tristano scomparve. Terminarono la cena anzitempo e andarono a ritirarsi, ma fu chiaro che non si sarebbero recati ognuno nel proprio alloggio.

Il giorno successivo quando li vidi compresi che il mio piano stava funzionando. Furono loro stessi, in preda al panico, a raccontarmi del loro amore, consumato durante la notte, terrorizzati dalle conseguenze: Isotta avrebbe dovuto arrivare vergine alle nozze con il re Marco. E loro due ormai non avrebbero più potuto stare lontani uno dall’altra. Mi feci avanti con la seconda parte del mio piano.
«Carissimi- dissi loro- una soluzione è possibile. Non vorreste vivere il vostro amore alla luce del sole, senza sotterfugi e inganni? Siete disposti a tutto pur di stare insieme?»
«Certamente » annuirono i due amanti.
«Ho avuto un’idea: avete notato la mia somiglianza con Isotta? Ebbene, prenderò io il suo posto. Diremo che Isotta sono io, sposerò il re Marco, e voi sarete liberi di amarvi per sempre.»
«Davvero faresti questo per me?» chiese Isotta, entusiasta e grata.
«Vi dobbiamo eterna gratitudine, Brengania» mi ringraziò Tristano.
La costiera della Cornovaglia si stagliava all’orizzonte e man mano che l’imbarcazione si avvicinava, il mio cuore batteva sempre più forte. A bordo c’era un gran via-vai di marinai. Io ero diritta vicino alla prua della nave a guardare il mio futuro: un domani in cui non avrei più dovuto servire e riverire nessuno, chiedere il permesso per qualunque cosa, lavorare per chi comandava senza ricevere mai gratitudine o elogi. Isotta e Tristano erano chiusi in cabina e nessuno di noi pensava che questo piano avrebbe potuto non funzionare.
Tintagel si stagliava maestoso sulla scogliera: non era nemmeno lontanamente paragonabile al maniero dei reali d’Irlanda, che era comunque una notevole costruzione. La sua posizione  dominava sul mare, circondato da verdi prati e boschi, con le sue alte torri e le possenti mura. Mi parve il luogo più bello del mondo.
Al nostro sbarco trovammo ad attenderci alcuni dignitari di corte e molte carrozze. Appena arrivammo all’ingresso del castello ci fu subito chiaro che il re Marco ci stava attendendo con trepidazione : c’era  un imponente fila di guardie in alta uniforme, trombe che squillavano e un lungo tappeto rosso adornato ai lati da magnifici fiori dal profumo inebriante. Sentivo il cuore battermi fino in gola e le orecchie mi ronzavano. Mi sentivo splendida: indossavo un magnifico abito appartenente ad Isotta, dello stesso colore dei nostri occhi, azzurro intenso, ornato da perle e merletti e un copricapo in tinta, con un sottile velo che scendeva quasi fino ai piedi. L’ingresso fu trionfale, varcammo la soglia e venimmo accompagnati nella sala del trono, immensa, illuminata dalla luce che scendeva dai vetri policromi posti in alto sulle pareti e da torce e candele, mentre tutta  la corte ci osservava incedere verso il trono. Il re aveva una cinquantina d’anni, snello, coi capelli e la barba brizzolati, e, assiso sul suo trono, mi osservava già dal mio ingresso in sala. Quando fummo abbastanza vicini ci scrutò tutti e tre: Tristano era davanti, io seguivo, infine c’era Isotta, a capo chino e con un manto intorno al capo nel tentativo di celarsi.
«Mio re e zio-esordì Tristano- ho portato a compimento la cerca che mi avevate  assegnato e ho trovato la fanciulla a cui apparteneva il capello dorato da cui foste ammaliato: eccola, la principessa Isotta d’Irlanda,  i cui sovrani vi concedono felicemente in sposa, suggellando così la pace e l’unione tra i nostri due regni.»
Il re mi guardò, poi scrutò Isotta. Il suo sguardo mutò leggermente. Non riuscivo a decifrare i suoi pensieri.
«Vi ringrazio, mio adorato nipote-si pronunciò il sovrano.- Mi avete condotto una sposa bellissima e giovanissima. Chi è l’altra fanciulla che portate con voi?»
In quel momento restammo ammutoliti tutti e tre per qualche istante, in preda all’ansia; ma Tristano fu lesto a rispondere:
«Il suo nome è Brengania,  una dama di Isotta, ed è la fanciulla che intendo sposare, col vostro permesso. Ma la priorità va alle vostre nozze.»
«Isotta -si rivolse a me-sarete la mia sposa domani. Potete andare a riposare » ci congedò, e tirammo tutti un sospiro di sollievo. Ma nel profondo della mia mente si annidava il sospetto, come un piccolo tarlo che si insinuava e scavava, facendo emergere dubbi e paure. Cos’era quello sguardo sulla vera Isotta? Era la mia immaginazione, oppure un gioco di luci, o gli occhi del sovrano si erano illuminati quando l’avevano notata?
Quella notte non chiusi occhio: ero troppo stanca  e i pensieri mi tenevano arenata allo stato vigile, non permettendomi di passare nel mondo onirico. La mattina dopo il mio aspetto era davvero terribile; Isotta non era al mio cospetto come concordato, ma grazie al mio futuro ruolo di regina avevo già molte servitrici e per la prima volta nella mia breve vita potei dare un ordine: mi occorreva dell’acqua calda, in cui avrei versato delle polveri erbali e miele recitando una piccola malìa: depositandomele sul volto avrei riacquistato bellezza e splendore. Ma Isotta e Tristano avrebbero dovuto  essere nelle mie stanze, a rendermi edotta sulla cerimonia nuziale: io non seguivo quella religione. Il mio era un culto basato sulla venerazione della Dea, madre di tutto e, sebbene anche Isotta e sua madre seguissero questa devozione, si erano dovute convertire  al nuovo credo, che, partendo dall’Oriente e diffondendosi ovunque , diventò il culto ufficiale del Sacro Romano Impero, imponendosi anche nell’Europa del Nord, nonostante in segreto molti continuavano a praticare l’antico culto. Isotta arrivò quando ormai le mie ancelle mi avevano  preparata per la cerimonia  e riuscì a darmi solo sparute informazioni sullo svolgersi del rito nuziale.  
Mentre procedevo verso l’altare, il panico si impadronì di me: la differenza tra una vera principessa come Isotta e la sottoscritta non sarebbero alla lunga passate inosservate. Nonostante la mia lunga permanenza a corte, la nostra educazione era completamente differente.
Il celebrante parlava una lingua che, per fortuna, in parte conoscevo, proprio perché mi occorreva per alcuni incantesimi, il latino; non riuscii in ogni modo a seguire in pieno il rito, non sapendo cosa dire e quando dirlo, quando alzarsi e quando sedere, provocando la perplessità dello sposo, dell’officiante e di tutta la corte che gremiva la Cattedrale. Alla fine di quella tortura, dissi al mio reale consorte che ero troppo emozionata, confusa e felice, per questo non ero riuscita a parlare. Sembrò credermi. I festeggiamenti si protrassero tutto il giorno e tutta la notte, e mi divertii molto: per un attimo dimenticai le mie angosce. Tristano e Isotta danzarono felici a lungo, per poi dileguarsi anzitempo. Era l’alba quando io e mio marito ci recammo nel nostro talamo. La mia  prima notte di nozze non fu né piacevole né dolorosa, e così tutte quelle che seguirono.

La mia vita da regina non era però come avevo immaginato. Certo, non dovevo più obbedienza a nessuno se non al mio re; indossavo abiti meravigliosi, gioielli splendenti, la corona e sedevo su un trono; ma la mia era una prigione dorata. Dovevo presenziare a innumerevoli eventi pubblici e privati, presenziare alle udienze, seguire l’etichetta, e soprattutto non mi era permesso uscire da Tintagel se non accompagnata da stuoli di guardie, col permesso del re. Quando iniziai a terminare le mie erbe medicali desiderai uscire per cercarle nei boschi attigui al maniero: non mi fu permesso. Da lì compresi che ero di nuovo prigioniera. Nel frattempo, Tristano e Isotta si amavano un po’ ovunque, persi nel loro mondo, incuranti dell’esterno;  quel che mi preoccupava di più era l’atteggiamento di re Marco: quando vedeva Isotta, la scrutava  sempre più spesso con sguardo pieno di amore e desiderio, e trascurava il nostro talamo. Non mancò inoltre di accorgersi di quanto la mia formazione fosse limitata: non sapevo suonare, non svolgevo lavori femminili quale il cucito e il ricamo, sapevo danzare limitatamente. Mi assegnò dunque un precettore, per cui fui costretta a studiare argomenti che non mi interessavano affatto. Eravamo sempre più lontani e io non ero felice. Non potendo neanche procurarmi le materie prime, non ero  in grado di preparare un nuovo filtro d’amore, onde legare re Marco a me proprio come successe per Tristano e Isotta;  altri legamenti parevano non sortire effetto, surclassati dal precedente incantesimo che Maeve operò sul capello della figlia legittima.

Un giorno, sul finire dell’estate, il re decise repentinamente di cacciare da corte il nipote e la sua amata: il loro comportamento non era consono e non vedeva di buon occhio la relazione tra un principe, quale era Tristano, e una fanciulla non nobile, quale pensava fosse Isotta nei panni di Brengania. I due lasciarono la corte e iniziarono a vivere nei boschi come esuli. Pregai il re di riaccoglierli, dato che all’inizio della stagione delle piogge e del freddo non sarebbero riusciti a sopravvivere, ma non mi diede ascolto. Compresi che lo faceva per non avere più davanti agli occhi la conturbante bellezza della mia sorellastra, la sua grazia e il suo fascino.
Però, dopo un breve periodo, tornato a palazzo dopo una battuta di caccia, Marco mi disse che aveva deciso di riaccoglierli a corte: li aveva scorti mentre dormivano in una radura, sotto un grande albero, con la spada di Tristano posta in mezzo a loro. Questo suscitò in lui compassione e tenerezza.
Dopo alcuni mesi arrivò una notizia che fu l’inizio della fine.

Mentre eravamo tutti nella sala del trono, giunse un messo latore di una tremenda notizia: la regina Maeve era morta. Come Fiona mi aveva detto, c’era da aspettarsi un suo repentino invecchiamento seguito dalla morte,  ora che non poteva più utilizzare il sangue dei tributi per restare giovane, un incantesimo davvero oscuro che non insegnò né a me né a Isotta.  Io non trattenni le lacrime, ma Isotta, che era presente, scoppiò in un urlo straziante per poi venir colta dai singulti e cadere svenuta. Questa reazione spropositata non passò inosservata a nessuno, tantomeno al re Marco: il sovrano comprese infine che qualcosa non andava. Ci convocò  nelle sue stanze in privato, e non ci restò che confessare ciò che avevamo fatto: ci giustificammo dicendo che l’amore tra i due giovani era scoppiato inaspettato e repentino, ci scusammo implorando pietà, ma il re fu inflessibile: condannò Tristano all’esilio, me al carcere e pretese che la vera Isotta diventasse sua moglie. Le nostre nozze non erano valide, giacché avevo mentito sulla mia identità, e nemmeno abbracciavo la sua stessa fede, non avendo neppure  mai ricevuto  il battesimo né altri sacramenti.

Venni rinchiusa in una alta torre, con una finestra minuscola vicina al soffitto.  In attesa di essere giustiziata, riflettevo su come il mio piano fosse stato sciocco e destinato al fallimento. Cercare di avere una vita migliore da quella che sembrava scritta per me alla mia nascita mi aveva solo condotto all’infelicità e alla morte. Ero anche io di sangue reale, almeno per parte di madre poiché non conoscevo mio padre; ma ero solo una bastarda e non avrei potuto rivelare a nessuno il mio segreto. Forse però ora avrei potuto dirlo a Isotta: eravamo sorellastre.
Isotta divenne regina pochi giorni dopo che il re scoprì la nostra macchinazione e riuscì ad avere il permesso di venirmi a trovare: Marco era folle di lei, e non riusciva a negarle nulla. Mi disse che avrebbe amato Tristano per sempre, ma il suo destino era quello di essere regina, e che avrebbe fatto il suo dovere dando degli eredi al regno; mi rivelò, soprattutto, di aver scongiurato il consorte e ottenuto da lui la grazia per me, ma sarei stata mandata in esilio con Tristano che ancora non aveva lasciato la corte: Marco gli aveva imposto di assistere alle nozze. Fui sinceramente commossa dalle sue parole e decisi di confidarle il segreto che mi aveva rivelato Fiona: eravamo sorelle per parte di madre.
Isotta pianse e mi abbracciò contenta, chiamandomi sorella.

Tristano ed io lasciammo Tintagel in un giorno di pioggia, con due cavalli e pochi oggetti al seguito. Il suo nobile volto era scuro, gli occhi gonfi dalle lacrime versate; mi fissò con sguardo spento e mi disse che aveva deciso di recarsi in Armorica, una regione della Bretagna francese, il cui Duca era suo caro amico, invitandomi ad andare con lui. Io non avevo più alcun luogo dove recarmi, non possedevo più nulla, e acconsentii con gratitudine.
Per giungere a destinazione avremmo dovuto arrivare a sud ed imbarcarci: il viaggio non  era molto lungo, ma pieno di disagi a causa delle piogge e dei briganti che imperversavano per strada. Ne incontrammo un manipolo, ma Tristano li sconfisse facilmente. Lungo il percorso, durante le tappe,  mi insegnò anche ad usare la spada. Per approvvigionarci di viveri cacciava della selvaggina mentre io cercavo bacche per sostenerci e rinforzarci ed erbe da bollire per depurarci. Iniziai ad essere serena con lui al mio fianco; non sorrideva più, eppure lo trovavo ugualmente bellissimo, e il solo vedere il suo volto mi rendeva radiosa.
Una sera la pioggia era particolarmente incessante e ci riparammo in una grotta, ove accendemmo un piccolo fuoco con della legna precedentemente raccolta. Faceva freddo; avevamo delle pelli ma non erano sufficienti, e così mi disse di avvicinarmi: avremmo dormito uno accanto all'altro per farci calore coi nostri corpi. Non riuscii a chiudere occhio: nel sentirlo così vicino, mi sentivo pervadere da una frenesia che non avevo mai provato, che mi scaldava lo stomaco e il ventre, mentre il cuore batteva all’impazzata e la gola si seccava. Intanto che lui dormiva respirando lievemente, io vegliavo e piangevo senza farmi sentire. Quella notte conobbi l’amore e il desiderio, per la prima volta nella mia vita.

Ma Tristano non corrispondeva il mio amore. Nella sua mente e nel suo cuore c’era solo Isotta, e più di una volta durante il nostro viaggio lo sorpresi a piangere in silenzio. Quelle lacrime mi stringevano il cuore in una morsa gelida.
Al porto trovammo un passaggio su una nave diretta in Armorica; pagammo con il poco denaro portato. Il mare era tempestoso, al contrario dell’anno precedente, quando dall’Irlanda ci recammo in Cornovaglia, pensando di andare incontro ad un destino di felicità. Come abbiamo potuto essere così stolti e pensare che il nostro inganno avrebbe funzionato, ancora me lo domando. E’ forse la ricerca della felicità che ci rende ciechi e non ci permette di comprendere l’ineluttabilità del destino? Che ci mostra la realtà non per quella che è, ma per quella che vorremmo fosse? Che ci oscura l’inutilità del nostro dannarci per avere la vita che sogniamo?
Quando arrivammo al palazzo  del Duca, venimmo accolti calorosamente da lui in persona. La sera stessa fece allestire un banchetto  e volle ascoltare la nostra storia. Si mostrava particolarmente interessato a me, e ben presto mi convocò  nelle sue stanze.
«Brengania, da quando vi ho vista non faccio altro che pensare che il vostro volto mi è noto, che mi ricorda qualcuno. Raccontatemi la storia delle vostre origini, sinceramente e senza omettere nulla.»
Rimasi meravigliata da quella richiesta, ma decisi di narrargli tutto: la mia infanzia nei boschi con Fiona, di come fui accolta a corte, di come infine scoprii che la mia vera madre non era Fiona ma la regina Maeve. Rimasi ancora più meravigliata quando il Duca si mise a piangere e mi abbracciò.
«Maeve,  circa 17 anni fa,  durante un suo viaggio si fermò qui al mio palazzo. Lei era bellissima e io un giovane scavezzacollo, aitante e spaccone, poco attento alle conseguenze … nonostante fosse sposata, fu attratta da me come io da lei, e ci amammo con ardore per tutti i giorni della sua permanenza. Un giorno se ne andò all’improvviso, senza salutarmi, e non la vidi mai più. Una delle ancelle che le avevo assegnato  mi confessò che la regina Maeve era incinta. Tu le assomigli così tanto: capelli d’oro, occhi azzurri, bianche mani … e l’età corrisponde. Devi essere mia figlia!
Il destino spesso ci riserva sventure e dolori, ma a volte anche sorprese incredibili. Senza nemmeno cercare, avevo trovato mio padre.
Il Duca era vedovo, aveva altri figli e figlie e decise di riconoscermi come legittima; essendo di religione cattolica, volle farmi catechizzare e battezzare. Accettai di buon grado, e insieme decidemmo il mio nuovo nome da battezzata: Isotta. Decisi anche di lasciare al passato i piccoli sortilegi, le malìe e gli incantesimi, riservandomi solo di usare erbe per decotti, tisane e cataplasmi curativi. D’altronde Fiona mi aveva messo in guardia da essi, specificandomi che la magia ha sempre un prezzo.
La mia decisione fu di breve durata. Tristano era più silenzioso e depresso che mai e il mio amore per lui cresceva giorno dopo giorno. Per me era un doppio patimento il vederlo soffrire così e il non essere corrisposta da lui, che inevitabilmente pensava solo a Isotta. Essendo molto più libera qui che a Tintagel, potevo uscire quando volevo e così mi misi alla ricerca degli ingredienti necessari a preparare un nuovo filtro d’amore. Riuscii a preparare la pozione, lanciai su di essa il mio incanto e, senza particolari problemi, la diedi da bere a Tristano.
Il giorno dopo mi chiese in sposa al Duca, che acconsentì, felice. Anche io non stavo nella pelle e il giorno delle mie nozze, stavolta vere, fu il più felice della mia vita. Solo il giorno, perché già la prima notte di nozze non andò come desideravo: Tristano ubriaco si addormentò  e non mi degnò di uno sguardo. Il giorno dopo lessi ancora nel suo sguardo dolore, distacco, lontananza, e dell’amore, del desiderio, della passione che cercavo, neppure l’ombra lontana. La notte successiva si coricò con me e adempì ai suoi doveri coniugali, ma io sentii che mentre giaceva con me pensava ad Isotta.
Tutti gli incantesimi di mia madre erano di gran lunga più potenti dei miei. Iniziai ad odiare Isotta: una serpe verde si era impadronita delle mie viscere e mi stringeva il cuore: l’invidia e la gelosia iniziarono a strisciare dentro di me.
Dopo un certo tempo, Tristano mi disse che sarebbe partito per una cerca: re Artù di Camelot, che era suo amico, chiamava a raccolta i più valenti cavalieri di Britannia allo scopo di trovare il Santo Graal, il calice da cui bevve Gesù Cristo durante l’ultima cena. Mi disperai per la sua partenza, supplicai di non andare, ma fu irremovibile. Anche il Duca lo congedò malvolentieri, nonostante lo scopo del viaggio fosse nobile e cristiano.
Trascorsero molti mesi e Tristano non tornava. Non riuscivamo ad avere notizie e dentro di me si confondevano sensazioni contrastanti: ansia, solitudine, inquietudine, e un certo sentore, come un tarlo in sottofondo, che lui fosse andato a Tintagel per  rivedere Isotta. Cercai allora di attuare un potente incantesimo: quello della vista a distanza, tramite una polla d’acqua in cui avrei versato alcune polveri e intorno alla quale avrei acceso incensi che aprissero le porte della percezione.
 Vidi Tristano che si fingeva folle. Si aggirava per la corte di Tintagel, cercando di vedere la mia sorellastra. La visione fu chiara, ma durò solo un attimo; poi caddi svenuta e non mi ripresi prima di tre giorni e tre notti di febbre e delirio.
Quando Tristano tornò era ormai passato più di un anno dal giorno della sua partenza ed era gravemente ferito. Dal suo capezzale non ebbe remore di raccontare a me e al Duca mio padre che cosa gli fosse successo: era effettivamente partito per Camelot da cui, insieme ad altri prodi cavalieri, si era diretto alla ricerca del Graal, ma nella sua mente e nel suo cuore c’era solo Isotta, i suoi occhi, i suoi capelli, le sue dolci labbra, il suo sorriso e la sua voce cristallina. Allora si era diretto in Cornovaglia, ben sapendo che se suo zio, il re Marco, lo avesse visto ancora  lo avrebbe forse anche ucciso, pertanto aveva provato mille stratagemmi e travestimenti per incontrare la sua amata, ma invano. Marco però lo aveva riconosciuto ed aveva ingaggiato con lui un duello senza esclusione di colpi, ferendolo seriamente. Non lo aveva ucciso per pietà, ma la ferita era grave e nel tragitto verso casa era oltremodo peggiorata. Cercai tutte le erbe che avessi a disposizione, nonostante una rabbia cieca e sorda si stesse impadronendo di me, ancora una volta non amata, ancora una volta tradita, ancora una volta seconda scelta. Isotta, la bella e dolce principessa veniva sempre per prima: lei di nobili origini, lei amata e adorata da tutti, lei affascinante e graziosa più di tutte, lei regina, lei voluta sopra ogni cosa da Tristano. 

Non avevo i medicamenti necessari per curare quella ferita, e probabilmente solo Isotta avrebbe potuto guarirla, così come fece anni prima, quando Tristano era stato ferito da Moroldo. Il Duca mio padre fece mandare una nave a prendere Isotta. Il patto era che, se Isotta avesse accettato di venire a curarlo, la nave avrebbe issato una bandiera bianca; altrimenti sarebbe stata nera.
Tristano sembrava appendersi con tutte le sue forze alla vita, sperando di rivedere la sua amata; io invece sprofondavo in un gorgo di gelosia, rabbia e dolore, che mi corrodeva da dentro in maniera forse peggiore degli incantesimi da me effettuati. Il confine tra amore e odio è sottile e pericoloso, l’ossessione non mi permetteva di dormire la notte , né riuscivo a nutrirmi di giorno, mi faceva vedere ombre ovunque, e visioni di Tristano e Isotta che si amavano per ogni dove, come ai tempi lontani di Tintagel. Presi una decisione fatale: tutti i giorni andavo sulla torre più alta del castello a scrutare l’orizzonte del mare, e quando vidi arrivare la nave, e vidi che la bandiera era bianca, lanciai un incantesimo per farla apparire nera agli occhi di tutti coloro che si trovassero nel castello. Se non avessi potuto averlo io, non lo avrebbe avuto nessun’altra.
Quando  riferirono a Tristano che la bandiera era nera, il suo volto divenne terreo, dagli occhi vacui scorsero copiose lacrime, e col  nome di Isotta -non io, lei- fra le labbra, spirò. Piansi, chinata sul suo corpo, per una notte intera, iniziando a rendermi conto di aver condannato a morte l’unico uomo che avessi mai amato; e quando Isotta arrivò, tra la meraviglia di tutti, con l’unguento curativo, e vide il suo amore freddo come il marmo e senza più vita disteso sul letto, cadde al suolo stringendosi il petto, e in pochi istanti anche la sua anima si distaccò dal corpo. Anche mia sorella era morta.

Vivo da anni in questa casupola nel bosco, nella natia Irlanda, non lontano da dove vivevo con Fiona nel periodo sereno della mia infanzia, e preparo pozioni e unguenti per chi ha bisogno dei miei servigi. Mi ero illusa di poter cambiare il destino, e che questo non fosse determinato alla nostra nascita: chi nasce servo muore servo e chi nasce re muore re. Ho usato mille espedienti, praticato incantesimi e sortilegi che hanno rattrappito la mia pelle facendomi sembrare più vecchia di venti anni almeno, cospirato per ottenere la felicità che tanto ardentemente desideravo, e ora mi ritrovavo con una scia di morti alle spalle, dolori e ferite non rimarginabili, esattamente dal punto in cui ero partita: da una casupola in un bosco irlandese, a preparare pozioni. 

 La felicità che cercavo cosa era poi? Mutevole e inafferrabile anch’essa: una volta era la libertà, una volta il potere, una volta l’amore.

Stringendo tra le mani il ciondolo d’ametista appartenuto a Fiona, ricordai che mi aveva messo in guardia dall’usare troppo la magia. Avrei dovuto darle ascolto e smettere con gli incantesimi.  Nessuno sfugge al proprio destino, e ora non mi resta che attendere che il giorno fatale arrivi anche per me, corrosa dentro da tutti i miei inganni, la mia rabbia e i miei incantesimi.
 E dal mio amore, mai esistito veramente.




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