venerdì 29 gennaio 2021

SEGNALAZIONE: IL TACCUINO DEL DIAVOLO DI MARIO GABRIELE GIORDANO

Un romanzo storico ispirato a un processo del 1886




Cari lettori,

oggi parliamo Il Taccuino del diavolo di Mario Gabriele Giordano, edizioni Il Terebinto.

Sinossi:

Liberamente ispirato a un memorabile Processo giudiziario svoltosi nel 1886, questo Taccuino del diavolo trasporta il lettore in un mondo rigorosamente fedele alla realtà del tempo perfino nei dettagli toponomastici, nelle abitudini e nel linguaggio tanto da dare la sensazione di camminare insieme con i personaggi e di osservare da vicino uomini e cose che in vario modo li riguardano.

Oltre che una travagliata e intensa storia d’amore, la narrazione offre acuti spunti di riflessione su fatti e situazioni che vanno dalle disuguaglianze economico-sociali e territoriali ai danni, anche drammatici, di quella che oggi si chiama ludopatia, dal conseguimento dell’Unità al dramma del brigantaggio, dall’eterno conflitto tra bene e male all’irrisolvibile problema di una vera giustizia. 


Un estratto:

 Piazza della Libertà, ad Avellino, è una grande piazza, eppure quella sera appariva quasi angusta tanta era la gente che vi stazionava. Dalla Sala delle assise, al primo piano del Palazzo di Giustizia, l’antica residenza dei Caracciolo con i suoi attenti leoni di pietra a vigilarne l’ingresso, giù per l’ampia scala e per l’atrio, si stendeva una folla pressoché compatta. Rifluendo sulla piazza, essa la invadeva quasi interamente sgranandosi in una mossa frangia solo all’estremo opposto, lungo la Chiesa di San Francesco. Anche la sottostante scala della ‘Ferriata’ era occupata come una tribuna e, a turno, vi si andavano a sedere un po’ tutti, stanchi della lunga attesa. I giurati si erano ritirati in Camera di consiglio quando lo gnomone della meridiana marmorea che biancheggiava sulla facciata del palazzo proiettava la sua ombra sulle quattro del pomeriggio e la calura ardeva nell’aria ferma e inesorabile. Ora invece scendeva dai monti una frescura umida e densa. La fiamma delle lampade ad acetilene della pubblica illuminazione oscillava in un nugolo di moscerini e di falene facendo piovere dall’alto una diffusa luce azzurrognola. In basso, qua e là, spiccavano intanto i lumi degli improvvisati venditori che non si erano lasciata sfuggire l’occasione per piazzare nei punti più strategici le loro bancarelle e bandire ad alta voce le loro ghiottonerie: O melone! O melone! Bello e frisco è o melone! Rinfrescatevi o cannarone! Pollanchelle, pollanchelle! Belle e tenere so’ ’e pollanchelle. Io ’e tengo pe’ ogni gusto. So’ bollìte e songo arrusto! Vardàte che bella trippa. Bella e callosa è a trippa mia! Ma tengo puro o musso, o musso co’ limone. Sentìti che bell’addòra. Qua ci sta o gelato, ci sta pure o spumone e v’o faccio co’ limone. Vinìti qua, vinìti: v’o faccio bello e frisco. V’o faccio ’nnanzi a vui. «Sembra quasi una festa!» esclamò a un tratto guardandosi intorno un giovanotto dall’aria ottusa ma pretenziosa. «Bella festa!» commentò ironico un signore che gli era accanto mentre continuava a pulirsi attentamente gli occhiali col fazzoletto. «Bella 7 festa!» Poi, sgranando gli occhi miopi verso il giovane e accennando con la mano a una lapide posta a lato del portone del palazzo, ne lesse l’iscrizione beffeggiandola col tono della voce: «A Giuseppe Garibaldi il popolo di Avellino, 19 giugno 1882». E, mimando con la mano un assolutorio segno di croce, aggiunse: «Requiescat in pace. Ecco. Dopo tante speranze, questo ci ha portato Garibaldi». «Che c’entra Garibaldi?!». «Quando dico Garibaldi voglio dire tante altre cose». «Ma non è stato mica Garibaldi a portare qui da noi la smorfia. Soprattutto i napoletani per le loro giocate l’hanno da sempre consultata come si consulta la Bibbia». «Ma che smorfia e smorfia! Cosa c’entra la smorfia? Io parlo della nostra miseria, delle delusioni, delle umiliazioni. E pensare che questa è la piazza dove, come qualcuno dice, “spuntò l’alba del risorgimento nazionale”; è la piazza dove durante le ‘Cinque giornate di Avellino’ si riunirono carbonari e patrioti al grido di “Costituzione e libertà”. Libertà! Questa è oggi la nostra libertà! Anche questa piazza avrebbero fatto bene a chiamarla ancora ‘Gran Largo dei Tribunali’, perché i Tribunali li vedete: eccoli qua, sono di fronte a noi, in questo magnifico 8 palazzo, ma la libertà la vedete? Dove sta la libertà?». «Siete per caso un nostalgico, un borbonico?». «Ecco, voi siete uno di quelli che credono di risolvere le cose dividendo il mondo anziché unendolo. Per voi evidentemente esistono bianchi e neri, borbonici e savoiardi, napoletani e piemontesi. Io voglio dire che tutti noi, quanti ce ne siamo in questa piazza e in questo paese, poveri cristi eravamo e poveri cristi siamo rimasti, schiaffeggiati, mortificati e derisi e voi ve ne uscite col borbonico. Se poi per caso volete anche dire che sono un papalino…» «E voi volete forse dire che quel contadinaccio di Agostino, o come altrimenti si chiami, quello sciancato detto a giusta ragione il ‘Diavolo zoppo’, non sia un assassino lui e la sua bella cricca?». «Certo non si tratta di gentiluomini. Ma, per me, qualunque cosa abbiano fatto, sono dei poveri cristi. Come me, come voi. Sì, come me e come voi!». Il giovane, ritenendosi accomunato a gente che palesemente riteneva disonorevole compagnia, si arrovellò tutto ma, non trovando esca nella remota calma del suo interlocutore, sfogò la sua rabbia solo nel tono della voce e disse con 9 forza: «Quelli là sono il disonore della nostra città e della nostra provincia. Lo sapete o no che tutti ridono di noi? Lo sapete cosa vi dice quando vi incontra un forestiero? Vi dice: “Voi siete di Avellino? Siete compaesano del Diavolo zoppo?” e vi ride in faccia». «E dell’Eremita, che magari è delle sue parti, cosa dice il forestiero dei vostri incontri? Dice forse che questo è un angelo con le ali e quello un diavolo con la coda? Lo sa o non lo sa, e anche voi lo sapete o non lo sapete, che, se non ci fosse stato quell’ ‘angelo’, non ci sarebbe stato neppure questo ‘diavolo’ e aggiungete anche al forestiero dei vostri incontri che non c’è città, non c’è paese, non c’è villaggio, non c’è casa che non nasconda qualcosa di cui vergognarsi e quindi questo forestiero dei vostri incontri cominci a vergognarsi delle proprie vergogne. Il fatto è comunque che tutti siamo miserabili. Tutti poveri cristi. Quanto poi all’onore, ragazzo mio, siamo tutti disonorati. Questa è la verità. Finché siamo poveri e sbattuti siamo tutti disonorati». Detto questo, l’interlocutore del suscettibile giovanotto, inforcando gli occhiali, si allontanò attraverso la folla. Qualcuno lo salutò togliendosi il cappello: «Felice notte, Professore!». 10 «Felice notte». Questo non era stato il solo battibecco a svolgersi nella piazza. Qua e là tra la folla ogni tanto si sfiorava addirittura la rissa. Per questo, gruppi di carabinieri reali giravano discretamente, si facevano vedere, si fermavano, ammonivano, minacciavano e al Comando della Caserma di Via Irpinia si era in attenta vigilanza. Anche alla Caserma di San Francesco, di fronte al Tribunale, le stanze degli ufficiali erano illuminate come erano illuminate quelle dell’attiguo Palazzo del Municipio. L’impazienza dell’attesa sembrava intanto dilatare il tempo che, di quarto d’ora in quarto d’ora, veniva scandito dai rintocchi dell’orologio dell’antica torre del Fanzago, vanto e simbolo della città. Al di sopra del tramestio e del crescente brusio si sentivano voci concitate. Dell’Eremita e del Diavolo zoppo, a vicenda, si diceva dell’uno che era un martire o un impostore, dell’altro che era un assassino o una brava persona. E gli argomenti che ciascuno portava a sostegno della propria tesi erano i più disparati; i paradossi più aberranti venivano pronunziati con la massima naturalezza. Tutti ormai in quella piazza si sentivano dei Soloni e sputavano sentenze e controsentenze: 11 «Che sanno i giudici? Cha sanno gli avvocati? - Avete ragione. Certe cose non le conoscono, non le possono capire perché non le vivono. - E lo Stato? Che fa lo Stato? - Me lo chiamate Stato?! Lo Stato riscuote tasse e condanna, questo fa lo Stato. - Solo questo? E dove lo mettiamo il fatto che, da quando comandano i nuovi padroni, portano via dalle nostre campagne i migliori giovani obbligandoli a fare il militare. Anche questo è lo Stato. - Otto giorni spesi per un processo così semplice. Io, quelli lì, li avrei mandati ai lavori forzati a vita senza processo. - Ma i giudici sono furbi. Non sai che allungando i processi prendono più soldi?. - Siete proprio degli ignoranti. Siamo o non siamo in un paese civile? Bisogna discutere. - Paese civile! Se io fossi giudice, farei le cose presto presto: ‘Tu sei Tizio?’ Sì. ‘Hai fatto questo?’ Sì. ‘E tu sei Caio?’ Sì. ‘Hai fatto questo?’ Sì. ‘Maresciallo, arrestate questi delinquenti e portateli subito in galera’. - E la procedura? - Ma che procedura e procedura!? Sapete cosa è la procedura? È che i giudici stanno in quella stanza da quasi cinque ore: ci voleva tanto a dire: “Questi vanno in galera, questi vanno a casa”? - Ma voi non sapete cosa stanno facendo. Vedete, hanno anche chiuso le imposte dei balconi in faccia al popolo. Stanno dicendo barzellette: questo stanno facendo. E 12 fanno finta di pensare, di pensare… per prendere il popolo per il naso. - Allora ho fatto bene io che mi sono giocato un bel terno al lotto: 30 la folla, 37 il processo e 77 l’Eremita. - E l’Eremita dov’è? - E se mi è venuto in sogno? Che ne volete fare voi? Ma lo sapete che con i suoi numeri ha fatto cambiare posizione a parecchie persone? - Certo, certo. Anche al Diavolo zoppo, al figlio Leonardo e a tutti quegli altri disgraziati che ora stanno là dentro ad aspettare la sentenza. - La colpa è loro che hanno voluto strafare. - Non sapevano che la fortuna è donna e bisogna saperla prendere. Si prende con delicatezza: la lisci, la lisci e vedi che ti dà tutto quello che vuoi. Ma se la prendi con la forza ti dà un calcio nel sedere e ti manda a gambe all’aria. - Se è così, tutto è chiaro. Non avendo esperienza di donne, l’Eremita è inciampato nella fortuna e ha fatto inciampare anche gli altri. Non vi pare?». «Beati voi che sapete di tutto» commentò il Professore che in quel momento passava di là e aveva sentito alcune delle sentenze pronunziate da quegli infervorati Soloni. Uno di questi, quasi a scusare sé e gli altri, volle precisare: «Ora, veramente, parlavamo dell’Eremita». «Sì, sì, il deus ex machina». 13 «Che!?». «Nulla, nulla» rispose il Professore. «Continuate a parlare, che fate bene». «Io l’ho sempre detto che il Professore è un po’ matto. Ma che voleva dire con quelle parole?». «Mah! Comunque sia, sarà pure un po’ matto ma è una persona istruita, tutti dicono che ha un cervello grande così!». 


Conosciamo l'autore, Mario Gabriele Giordano 


Mario Gabriele Giordano, impegnato sui due versanti dell’insegnamento e della ricerca critica, ha fondato e diretto per circa quarant’anni la Rivista di Cultura e di Attualità “Riscontri”, tuttora attiva per la direzione di Ettore Barra. Quale opinionista ed elzevirista, oltre che ad altre testate, ha in particolare collaborato con “L’Osservatore Romano”. Stimato saggista, è tra l’altro autore della voce Alessandro Manzoni per Il Contributo italiano alla storia del Pensiero - Storia e Politica - edito dalla Treccani, 2013.

Oltre ad aver curato numerosi «Atti» di convegni e opere collettanee, ha pubblicato i seguenti volumi: Lo studio critico della letteratura italiana in 4 tomi, coautore A. Pavone, 1970/75; Inchiesta sulla poesia italiana in prospettiva duemila, coautore A. Frattini, 1987; Aspetti e figure della letteratura italiana dell’Ottocento, 1988; Il Verismo, Verga e i veristi minori. Storia testi e critica, 1992; Prima della luce. Racconti brevi brevissimi minimi, 1992; Il fantastico e il reale. Pagine di critica letteraria da Dante al Novecento, 1997; Elogio dell’intolleranza, 1998; Leopardi e l’altro Vesuvio, 2003; Il tramonto dell’intellettuale, 2009; Parole dal tempo. Liriche, 2014; La lettera di presentazione. Racconti, 2016; Una lanterna accesa. Aforismi vagabondi, 2017; Un mondo senza padri, 2019.





Recap:


  • Titolo: Il taccuino del diavolo
  • Autore: Mario Gabriele Giordano
  • Editore: Il Terebinto
  • Genere: romanzo storico, saggistica
  • N. di pagine: 160
  • Prezzo: € 15
  • Link: Il Terebinto

mercoledì 27 gennaio 2021

RECENSIONE- LA VITA QUOTIDIANA IN GIAPPONE AL TEMPO DEI SAMURAI DI LOUIS FREDERIC

 

 Un saggio sul Giappone medievale completo e interessante

 


 Cari lettori-chan,

il mio 2021 sara mooolto giapponese eh eh eh!...

Intanto ho terminato questo saggio, La vita quotidiana in Giappone al tempo dei samurai di Louis Frederic, iniziato a leggere nel 2020. che fa parte di una serie di uscite del Corriere della Sera a prezzo economico; ho controllato comunque che la versione reperibile in commercio costa poco di piu.

Il titolo potrebbe fuorviare; lepoca dei Samurai infatti non e solo quella presa in considerazione dal libro (1185-1600) , questi leggendari guerrieri nacquero verso il 900 e scomparvero (ma mai del tutto, v. Youkio Mishima che fece seppuku nel 1970) nel 1800. Sarebbe stato piu onesto parlare direttamente di medioevo, che in Giappone va dalla fine del XII secolo al XVII secolo.

 

Questa la sinossi-

 

Alla fine del XII secolo, l'Asia, così come l'Occidente, entra in un periodo di disordini politici e spirituali che porteranno profonde mutazioni nell'assetto geografico e sociale dei paesi medievali. In Giappone per quattro secoli si susseguono dinastie di Shogun, i dittatori militari, sullo sfondo dei conflitti tra uomini e idee contrastanti. "Gli aristocratici sulla via del declino continueranno a vegetare nella capitale, Kyoto, mentre il resto del paese vivrà tempi eroici, virili, movimentati", e saranno i Samurai, il cui primo dovere è sempre quello militare, a incarnare gli ideali generati dalle nuove concezioni sociali: l'amore per la propria terra, la fedeltà alla parola data, l'entusiasmo per le idee nobili, l'onore e l'avventura, l'accanimento nel lavoro e il disprezzo per la morte; ideali che creano nuove abitudini e dinamiche all'interno della società. Perché i guerrieri si truccavano e si presentavano profumati al nemico? Come mai le relazioni amorose erano spesso fragili e fugaci? In che modo si svolgevano i riti e gli incantesimi per guarire un malato? Nonostante la scarsa documentazione pervenutaci, grazie alla letteratura degli Emakimono, i famosi rotoli miniati nipponici, Louis Frédéric riesce a fornire un quadro del Giappone dell'epoca avvincente e dettagliato, rara occasione per esplorarne la vita quotidiana della gente comune più di quella dei famosi e dei potenti.

 

 Frederic passa in rassegna ogni piu minuzoso aspetto della vita dellepoca. Come vivevano i nobili, i contadini, la classe borghese, a corte, i monaci e le religioni, comerano le abitazioni, le citta, le fortezze, i palazzi, i templi, gli oggetti, la vita di donne e bambini, musica, canti e danze, rituali, cibi e bevande, abbigliamento, acconciature, trucco, e ovviamente i samurai.

 Non ce un aspetto che viene tralasciato, e questo senzaltro laspetto che mi ha pu impressionato del saggio.

Non mancano brani tratti da testi originali.

Chiudono il volume una monumentale bibliografia e un sommario per vocaboli.

 

Il libro e abbastanza scorrevole, non ha tuttavia la verve dei divulgatori contemporanei (e stato pubblicato per la prima volta nel 1968) e quindi alcune parti possono risultare pesanti, ma penso sia un testo fondamentale per chi desidera davvero conoscere questo periodo storico giapponese.

 

Recap

 

  • Titolo- La vita quotidiana in Giappone al tempo dei Samurai
  • Autore- Louis Frederic
  • Editore- Rizzoli
  • Collana- BUR
  • Genere- saggio, storia, storico
  • N. di pagine- 363
  • Prezzo- 12,25/8,90
  • Ebook-  6,99
  • Link- Amazon 

 

lunedì 25 gennaio 2021

SEGNALAZIONE: LA FORESTA DEI FIORI D'ACCIAIO DI ANTHONY C.

Un romanzo distopico che tratta argomenti importanti






Il romanzo che presentiamo oggi, La foresta dei fiori d'acciaio di Anthony C., edito da Horti di Giano, non è facilmente richiudibile in un solo genere, è una commistione di ucronia, distopia e fantasy.

Due regni vicini fisicamente, ma distanti anni luce: il Regno del Nord in una distopia corrotta ed egoista, il Regno del Sud utopico che persegue obiettivi quali la condivisione e il sostegno del suo
popolo. Sono in guerra, eppure scopriranno una verità che va al di sopra delle loro convinzioni.
La Foresta dei Fiori d’Acciaio è il titolo del romanzo d’esordio di Anthony C., nuovo arrivato tra le pubblicazioni della Casa Editrice Horti di Giano. Un fantasy che, attraverso un racconto verosimile alla realtà di oggi, tratta argomenti spinosi sui quali tutti, prima o poi, siamo chiamati a riflettere.

Il destino dell’umanità sulla linea di confine

«In principio c’era l’oro, dopo l’oro venne l’argento, dopo di questo venne il rame e infine ci fu il ferro». Così inizia questa storia segnata da confini e differenze radicate, sulla linea di demarcazione che separa due Regni distanti per usanze, credenze, principi e moralità. Un’ucronìa che racconta un futuro alternativo in cui qualcosa sta cambiando. Due Regni divisi da un’immensa foresta di metallo: la Foresta dei Fiori d’Acciaio, circondata da altissime mura e accessibile da otto portali, sorvegliati dai Reggenti. Ma la foresta si sta arrugginendo e una guerra è alle porte. I quattro Reggenti del Sud, durante il loro cammino scopriranno una verità che va al di là dei regni, dei loro ideali, delle sue pagine.
Anthony C. ha magistralmente messo in scena la metafora dell'attuale situazione socio-politica i cui temi centrali (clima, economia, guerra, relazioni sociali), toccano quei punti che dovrebbero permettere al genere umano di far innescare la scintilla di una nuova consapevolezza.”
Un testo adatto a lettori di tutte le età ma che, attraverso una narrazione fantastica, li condurrà a conoscere temi controversi quanto centrali della società di oggi.
Perché se comprendere è impossibile, conoscere è necessario.

Scopriamo qualcosa sull'autore, Anthony C.

Anthony C. è nato nell'anno del Grande Fratello in una malfamata periferia di una grande metropoli. Sin da piccolo ha mostrato la sua brama di sapere che lo hanno portato ad appassionarsi di scienza, di storia, d'informatica, di cinema e ogni disciplina che potesse accrescere la sua conoscenza, sia teorica che pratica. Tutto questo però senza mai seguire un percorso lineare, come il passare dalle montagne scozzesi alle spiagge californiane per poi sostare nel Bel Paese. È molto intollerante con gli stupidi, non sopporta la palese ipocrisia e detesta il sentimentalismo da talk show.

Recap

  • Titolo: La foresta dei fiori d'acciaio
  • Autore: Anthony C.
  • Generi: distopico, ucronico, fantasy
  • Editore: Horti di Giano
  • Data di uscita: 7 dicembre 2020
  • N. di pagine: 189
  • Prezzo: € 15
  • ebook: € 6,57
  • Link: Amazon 

giovedì 21 gennaio 2021

SEGNALAZIONE- LA TROVATELLA DI FABRIZIO FANGAREGGI

 Un romanzo breve fantasy in ebook




Cari amanti del fantasty,

oggi vi segnaliamo un romanzo breve fantasy, La trovatella di Fabrizio Fangareggi, edito da Delos Digital nella collana dedicata al genere, curata da Alessandro Iascy e Giorgio Smojver, una garanzia.


Chi è la trovatella? Che cosa la collega al segreto tanto a lungo celato?

 

«Adesso, tesoro, tu mi dirai dove si trova la bambina» continuò lo Scuro. «Non provare a mentirmi, perché so che l'hai trovata nel bosco un paio di lune fa e che ti sei presa cura di lei per tutto questo tempo. Se non mi accontenti, sarò costretto a farti male, molto male.»

 

L'avvistamento di uno Scuro oltre i confini magici del Bosco di Eytheriin provoca agitazione nella comunità Ellian. Il razziatore sembra sulle tracce di una bambina, una trovatella. Un vecchio eroe si lancerà all'inseguimento e gli anziani invocheranno l'aiuto della loro protettrice, la Dea Elenna. Dietro a questo pericolo si nasconde però una minaccia ancora più terribile. Un antico segreto, custodito per oltre un secolo, riaffiorerà dall'ombra della colpa, rischiando di gravare sull'intero mondo di Errat. E la Trovatella sembra esserne la chiave. Tre giovani si ritrovano coinvolti in questa ricerca che li condurrà, per strade diverse, di fronte alla tremenda verità e, soprattutto, a scoprire se stessi.

 

 

L'AUTORE 


 

Fabrizio Fangareggi è nato a Modena nel 1971. Da sempre innamorato di letteratura e cinema, si è diplomato al Corso di Regia e Sceneggiatura all'Accademia Nazionale del Cinema. Con il suo primo romanzo, Ekhelon  Frammenti di Guerre Dimenticate (Nocturna, GDS Edizioni), ha vinto il Premio Letterario Nazionale Cittadella 2014. Diversi anche i racconti pubblicati su antologie e riviste.

Per David and Matthaus ha pubblicato nel 2016 il romanzo Il confine del buio, scritto a quattro mani con l'amico Pierluigi Fabbri, cui ha fatto seguito nel 2018 Il buio di York.

Sempre nel 2018 è uscito il romanzo Yberros  L'ultimo soldato (Watson Edizioni).

E nel 2019 Di Gelo e di Fuoco (Fabiano e Castaldo) in collaborazione con Guido Fiandra, Andrea Zauli e Pierluigi Fabbri.


Recap

  • Titolo: La trovatella
  • Autore: Fabrizio Fangareggi
  • Genere: fantasy
  • Editore: Delos digital
  • N. di pagine: 106
  • Data di uscita: 20 settembre 2020
  • Cover: Gabriele Rivolta
  • Illustrazioni: Pietro Rotelli
  • Prezzo: € 2,99
  • Link: Amazon

martedì 19 gennaio 2021

Recensione serie tv: The Boys 1° stagione


Una serie tv supereroistica, ma dal forte significato, adatta a un pubblico adulto

 


The Boys è una serie tv trasmessa da Amazon Prime, basata sull’omonimo fumetto di Garth Ennis e Darick Robertson che non ho letto, quindi non farò paragoni.



 Avevo scritto recensendo The Umbrella academy che era la serie tv supereroistica più originale e... antisupereroistica che avessi mai visto; ebbene, non avevo ancora visionato The Boys.

 

Violenta, irriverente, con scene al limite dell’assurdo: avete presente la serie con più cose da pazzi che abbiate visto in vita vostra, ovvero Nip/Tuck? Bene, siamo su quei livelli, però con superpoteri, quindi rendetevi conto.

 

I supereroi del gruppo dei Sette sono delle vere star mediatiche, la multinazionale Voughn li gestisce in tutto e per tutto come veri prodotti mediatici; lo scopo non è più quello di salvare vite, ma di far soldi a palate. Quasi ogni membro del gruppo ha un segreto, una debolezza, una perversione, e la CEO della Voughn , la Stillwell, fa di tutto per tenerli nascosti.

Ogni membro di questo gruppo è ispirato chiaramente a un supereroe Marvel e DC, diciamo che ne è una versione oscura, perversa. Il leader indiscusso è il potentissimo Patriota, ispirato da un mix tra Capitan America e Superman; ci sono poi A-Train, un velocista stile Flash/Quicksilver, che nella prima puntata passa sopra e fa a pezzi la fidanzata dell’impacciato Hughie; Abisso, un acquatico stile Aquaman/Submariner; Queen Maeve, la meno egoista del gruppo ma ormai rassegnata, ispirata a  Wonder Woman; ci sono poi Translucent, un invisibile/invulnerabile, Black Noir che non parla e non si capisce che poteri abbia, e l’ultima arrivata, Starlight, ragazza di campagna dalla faccia pulita e dai poteri elettrici che vuole davvero essere d’aiuto, ma si scontrerà con abusi sessuali, grettezza d’animo, bugie, manipolazioni e sopraffazioni.

Appaiono poi altri super minori, dalle vite molto tormentate.

 

Di contro, Billy Butcher mette insieme un gruppo di ragazzi, The Boys appunto, tra cui Hughie, per sputtanare agli occhi del mondo i Sette e la Voughn, cercando la vera origine dei loro poteri: tutti sanno infatti che gli eroi sono nati per volere divino con queste capacità, ma sarà veramente così?

 

Tutto questo è sviluppato in una trama avvincente, piena di azione e colpi di scena, che dà ampio spazio a quasi tutti i personaggi, anche se la storyline di Abisso è un po’ distaccata dalle altre; la recitazione è ottima, bene scene/costumi/effetti speciali.

 

Il significato ultimo della serie è sottolineare la nefandezza del sistema capitalistico e del vero potere, quello del marketing, che trasforma e manipola ogni cosa.

 

The Boys mi ha preso molto, anche se è a tratti davvero violento e disturbante (non vedrò mai più i delfini nello stesso modo...); vedrò al più presto la 2° stagione, già andata in onda.

 

Sono presenti scene molto forti, quindi VM 16 e sconsigliato alle persone molto sensibili e impressionabili.

 

Recap:

 

  • Titolo: The Boys
  • Genere: supereroi, dramma, azione, fantascienza
  • Produzione: USA (Sony/Amazon)
  • N. di puntate: 8+8
  • Rete di trasmissione in Italia: Amazon Prime Video
  • Cast: Karl Urban, Jack Quaid, Antony Starr, Erin Moriarty, Chase Crawford, Jessie Usher, Elizabeth Shue

 

 


 

lunedì 18 gennaio 2021

SEGNALAZIONE: AWEN DI ARIANNA ROSA

 Un romanzo distopico di ambientazione italiana




Cari distopici, AWEN è un romanzo distopico autopubblicato da Arianna Rosa e ambientato, almeno in parte, a Roma.

Leggiamo una dettagliata sinossi:

Nel Dicembre del 2020 la AWEN, un'azienda fondata dalla coppia di americani Anne Willoby e Eugene Norton, compare sul panorama mondiale vendendo la possibilità di realizzare i desideri. Al loro potere sembrano non esserci limiti, di qualunque tipo di desiderio si tratti, di qualunque natura o raggio d'azione, essi sono in grado di trasformarlo in realtà, purché si abbia la possibilità di pagare. Ogni desiderio, infatti, ha un costo non indifferente, e più gli anni passano più il prezzo sale, arrivando a raggiungere la cifra esorbitante di ottantamila euro. Incuranti del limite, i ricchi del pianeta spendono montagne di soldi per dare vita ai loro sogni più reconditi, e la AWEN cresce in fama e importanza, aprendo filiali in tutte le maggiori metropoli e marcando sempre più la differenza tra coloro che possono e coloro che non possono permettersi un desiderio. Le priorità internazionali si spostano su valori differenti e il denaro, la fama, e di conseguenza anche l'aspetto fisico, che garantisce il rapido accesso a una facile notorietà, diventano i cardini della nuova esistenza.

Un nuovo ordine di emarginati si viene inesorabilmente a creare: i poveri, che non possono permettersi né un desiderio né un lavoro ben retribuito, poiché vincolato anch'esso a scuole di lusso fuori dalla loro portata; e i brutti, coloro che non hanno una bella presenza, che hanno dei difetti estetici, dei tratti somatici particolari, che non rientrano nella categoria di quelli canonicamente perfetti. Essi sono costretti a vivere ai margini, a sopravvivere nelle periferie, a rosicchiarsi uno spazio di vita fatta di stenti e di sacrifici, dove la morte può presentarsi anche a seguito di un'occasione mancata.

Ed è proprio a causa di una di queste morti assurde che Tommaso, Antea e Noah decidono di porre fine alle loro sofferenze e di strappare ai Willoby, e ai ricchi del mondo, la loro immeritata fonte di supremazia. Tutti e tre hanno dei sogni e dei relativi impedimenti che gliene rendono impossibile la realizzazione, almeno nella realtà in cui si sono ritrovati. Tommaso vorrebbe essere un grande chef, ma la sua stazza imponente e l'aspetto burbero gli sbarrano la strada. Noah è un campione delle arti marziali, ma i suoi genitori sono di nazionalità differenti, il suo essere un miscuglio di etnie diverse non è visto di buon occhio, e i soldi che guadagna non sono sufficienti a raggiungere l'obiettivo di partecipare alle olimpiadi. Antea è schiacciata dalle lentiggini che le ricoprono il viso, si sente inadeguata, insulsa e senza speranza, e l'unica cosa che vorrebbe davvero è dimostrare di valere qualcosa. In seguito ad un incontro fortunato su internet, Tommaso conosce Yara, una ragazza mulatta hacker di professione, determinata anche lei a distruggere la AWEN poiché, a causa sua, anche la sanità e altri campi fondamentali sono diventati irraggiungibili e schiavi del denaro, tanto da lasciar morire le persone che non possono permettersi una determinata cura. La madre di Yara, infatti, è morta di cancro al seno, e la ragazza soffre dello stesso male, ma non ha i soldi sufficienti per pagarsi l'operazione che le salverebbe la vita, né tantomeno per comprarsi un desiderio.

Unendosi nell'impresa impossibile di scardinare lo strapotere della AWEN e sovvertire così lo squilibrato ordine mondiale che imperversa, i quattro si fanno assumere nella nuova sede AWEN che sta aprendo nella loro città, Roma, con lo scopo di infiltrarsi tra le linee nemiche, acquisire le informazioni necessarie a muoversi con dimestichezza, e arrivare infine ad essere in grado di rubare la tanto misteriosa macchina che realizza i desideri.

All'interno del grattacielo troveranno ostacoli fisici che testeranno le loro abilità e il loro ingegno, ma anche imprevisti e sbarramenti inaspettati nella figura di Ted Sarlo, il capo della sicurezza interna, un uomo violento, cattivo e prepotente. Sarlo intralcerà loro la strada in maniera quasi involontaria, picchiando Noah, minacciando Antea e scontrandosi con Tommaso a causa delle violenze che Sarlo perpetra ai danni di una sua collega. Questi scontri metteranno a dura prova sia la determinazione dei ragazzi che la loro stessa amicizia, giungendo alla meta quasi completamente cambiati, solamente per scoprire che il premio tanto ambito non è affatto ciò che credevano.

La tanto misteriosa macchina dei desideri non è, difatti, una macchina, bensì un essere vivente, una creatura incatenata a un lettino e costretta ad usare i suoi poteri per esaudire i desideri con la forza.




Un estratto:

I primi banner pubblicitari iniziarono ad apparire nell'estate del 2020. Senza spiegazioni, senza indicazioni, senz'altra informazione se non questa semplice frase, a caratteri cubitali su sfondi colorati di volta in volta differenti. Sembrava come se qualcuno avesse smontato un enorme cubo di Rubik e ne avesse disseminato in giro i pezzi, attaccandoli ovunque ci fosse stato abbastanza spazio, scrivendoci sopra quelle parole misteriose, e assicurandosi che si vedessero e, soprattutto, si leggessero bene.  Ignorarli era pressoché impossibile. Le città ne furono letteralmente invase, comparvero su ogni mezzo pubblico, su ogni schermo gigante, su qualsiasi superficie considerata degna di essere notata. Le gallerie delle metropolitane si trasformarono in quei fuorvianti tunnel caleidoscopici che si trovavano nelle giostre per bambini, le facciate dei palazzi in ristrutturazione presero le sembianze di bandiere mai viste di un nuovo stato sconosciuto, le sale d'attesa degli aeroporti somigliarono sempre più alla mastodontica scatola di un puzzle i cui tasselli sono stati sparpagliati sul tavolo, pronti per essere ricollegati e insigniti finalmente di un senso.

Perché era solamente questo che la gente aspettava, alla fine. Un senso. Da quando sbucarono per la prima volta, chiunque sulla Terra spese almeno un'ora della sua vita a congetturare sul significato di quel bombardamento mediatico, senza tuttavia riuscire a spiegarlo in alcun modo.     

I più scettici la liquidarono sgarbatamente come l'ennesima trovata acchiappa clienti di una qualche nuova azienda in espansione. Un centro benessere super accessoriato, un tour operator all-inclusive con chissà quali rari benefits, oppure sai quelle crociere dove giri il mondo sdraiato in piscina a bordo di un palazzo galleggiante, che non devi nemmeno allungarti per prendere il drink perché c'è sicuramente qualcuno pagato per farlo al posto tuo? Ecco, una cosa del genere, la solita truffa spilla soldi, vedrai, maledetto marketing moderno. Ti rimbambiscono fin quando non ci caschi e alla fine ti prendono per sfinimento.

I più speranzosi, invece, si beavano della vista di quelle lettere magiche, si lasciavano sommergere dalla bellezza dell'opportunità che offrivano, e attendevano speranzosi la nascita di un mondo in cui una cosa del genere fosse stata veramente possibile.

Realizzare i propri desideri.

Chi non ha mai avuto un desiderio? Chi non ha mai immaginato di schioccare le dita, strofinare una lampada, agitare una bacchetta et voilà, il sogno realtà diverrà.

Chi non ha mai voluto avere di più? Chi non ha mai voluto essere di più?

Eppure, la magia non esiste. È una cosa da ragazzini, da sciocchi superstiziosi, solo gli stupidi credono ancora che si possa avere tutto e subito, guardando le stelle ed esprimendo un desiderio come il personaggio di un cartone animato. Ma allora, che intendevano quei cartelli? Cosa volevano dire? A quale subdolo giochetto mentale stavano giocando?

Fecero bene il loro lavoro. Tennero tutti sulle spine per mesi. Li fecero arrovellare, li fecero scervellare, li fecero addirittura arrivare a scommettere su quale potesse essere l'enigmatica verità dietro a tutto quel mistero, dando vita a un mercato clandestino di scommesse che oscurò persino quello sportivo. Li portarono allo stremo della sopportazione, al punto da rischiare di vanificare tutto e perdere la tanto agognata audience, poiché la bolla di curiosità aveva raggiunto l'apice massimo. Se si fosse gonfiata un altro po’ sarebbe inevitabilmente scoppiata, rispedendo tutta quell'attenzione così faticosamente guadagnata negli abissi sconfinati dell'indifferenza cosmica. 

E allora si rivelarono. Appena in tempo per i regali di Natale, il Paradiso arrivò sulla Terra. In senso quasi strettamente letterale, tra l'altro, perché quel nome, che tutti avevano atteso con ansia, evocava precisamente quella sensazione lì.

AWEN.

Un termine uscito da una congiunzione astrale di quelle che si vedono solo nei film, che capitano una volta in un trilione di anni, che avrebbero fatto impallidire persino la cometa più pretenziosa. Anne Willoby e Eugene Norton si limitarono ad usare le iniziali dei loro nomi, e il destino, il fato o una semplice fortuna sfacciata fecero sì che l'acronimo risultante fosse una parola reale, di derivazione gallese, che si riferiva all'ispirazione poetica di cui si servivano i bardi e i cantastorie per narrare le gesta dei grandi eroi del passato. Una coincidenza che dire "curiosa" è altamente riduttivo, specialmente dato che loro stessi si stavano ergendo a novelli eroi moderni.

Coloro che avrebbero salvato l'umanità dal giogo dell'impotenza.

Per aggiungere ulteriori ingredienti all'incredibilità di tutta la questione, tali lettere, messe insieme in quel modo, non solo avevano una chiara assonanza con il termine inglese heaven, sfruttato immediatamente per il suo significato, ma si prestavano anche eccezionalmente bene per lo slogan più riuscito nella storia degli slogan degli ultimi mille anni:

 

Any Wish Exists Now

 

Qualsiasi desiderio esiste ora. Nel senso che vive, respira, batte, è realtà, si può esprimere e, soprattutto, si può realizzare. Ciò che la AWEN stava regalando al mondo, esattamente come annunciato nella pubblicità, era la possibilità di far avverare i desideri. Di qualunque tipo, in qualunque campo, con qualunque caratteristica e senza alcun limite. Loro lo avrebbero trasformato in realtà.

Nacque un tumulto senza precedenti. New York, la città dove il primo Dicembre del 2020 fu inaugurato il primo centro desideri della AWEN, fu invasa dalla più grande mobilitazione di massa che la storia avesse mai visto, seconda solamente alle guerre mondiali. Il cuore pulsante di Manhattan si riempì di giornalisti, emittenti televisive, rappresentanti politici e ambasciatori stranieri, nonché di gruppi di associazioni culturali, associazioni benefiche, protestanti e manifestanti di sorta, a cui si sommò una marea umana di anime trepidanti in attesa di vedere i loro sogni prendere finalmente vita. Circondati da una sicurezza privata che sfiorava l'assolutismo, i Willoby in persona spalancarono le porte del loro magico mondo ultraterreno e diedero il benvenuto a tutti coloro che avessero qualcosa da chiedere.

Quel giorno nessuno uscì di lì a mani vuote.

Quel giorno nessuno rimase insoddisfatto.

Quel giorno il futuro della civiltà umana cambiò per sempre.

E non in meglio.


Conosciamo l'autrice dalle sue stesse parole: 


Mi chiamo Arianna Rosa e sono nata a Roma il 23 Marzo 1989. Nel 2008 mi sono diplomata al Liceo Classico Orazio di Roma e nel 2012 mi sono laureata all’università La Sapienza in Mediazione Linguistico-Culturale. Parlo correntemente l'inglese e lo spagnolo, e attualmente sto studiando il giapponese e il coreano da autodidatta. Da Gennaio ad Agosto di quest'anno ho vissuto in Inghilterra in cerca di nuove opportunità lavorative e di vita personale, ma purtroppo la pandemia che ha fermato il mondo ha fermato anche le mie speranze. Rientrata in Italia, alterno lavoro, scrittura e studio nel tentativo di non farmi scivolare l'esistenza tra le mani.

Leggo fin da quando ho imparato a farlo e scrivo da quando ho scoperto che non mi bastava più leggere le storie degli altri, ma che volevo inventare le mie. Ho iniziato scrivendo Fan Fiction, usando quindi personaggi già noti, per imparare innanzitutto a sviluppare una trama originale. Sono poi passata ai racconti brevi, ad un piccolo romanzo, per finire con alcuni romanzi semplici, autoconclusivi, che non ho mai proposto perché ancora acerbi. Dopo essermi cimentata con diversi generi (principalmente fantasy e young adult), sono approdata sul distopico, il genere che meglio mi rappresenta al momento. Ho scritto una trilogia interamente pubblicata su Amazon come self publisher, di cui ho curato sia l'editing che le copertine. Dopodichè, ho iniziato la mia ultima dilogia, il cui primo volume è AWEN e che sarà seguita da HART, attualmente in lavorazione.


 Recap:


  • TITOLO: AWEN 
  • AUTORE: Arianna Rosa 
  • GENERE: Fantasy distopico
  • EDITORE: Self published 
  • N DI PAGINE: 278 in ebook, 365 in cartaceo 
  • PREZZO: 2,99 in ebook - 12,90 in cartaceo 
  • LINK : AMAZON

venerdì 15 gennaio 2021

SEGNALAZIONE: BELIAL DI MARIA ELENA CRISTIANO

Un romanzo horror tra atomi e demoni





Cari horror-maniaci,
oggi vi segnaliamo il romanzo horror Belial, di Maria Elena Cristiano, pubblicato da Edikit edizioni.

Leggiamo la sinossi:

Esiste un confine netto che separa il bene dal male? Cosa trasforma un uomo in un demone? E' possibile far scomparire la crudeltà?
Queste sono le domande che tormentano Anton Bogdanov, ricercatore scaltro e visionario. Le risposte a questi quesiti riposano sul fondo di una provetta, fra gli atomi della molecola DJMH, che annulla gli istinti violenti, e della sua gemella speculare
Pazuzu, che invece scioglie l'inconscio da ogni vincolo morale, liberando le belve e i mostri che albergano nell'animo umano.
Spalleggiato dai suoi fidati collaboratori e finanziato dal DARPA, organizzazione governativa americana che progettò il World Wide Web, Bogdanov realizzerà il sogno di donare al mondo un composto capace di curare il Male, per poi scoprire che esiste un'alternativa all'azzeramento delle pulsioni più sanguinose e amorali di cui l'animale uomo e' capace: assecondarle e goderne.
Inchinatevi a Belial e al suo Nuovo Ordine Mondiale!


Conosciamo meglio l'autrice: 

Maria Elena Cristiano nasce a Roma, dove ancora risiede. Laureata in Medicina, dirige un’agenzia di servizi letterari: Babylon Café (www.babyloncafe.eu).
Ha all’attivo tre romanzi: Me and the Devil (Delos Digital), L’isola delle bambole e Immortali.
Suoi racconti sono stati pubblicati nelle antologie Un penny dall’Inferno (Sensoinverso), Racconti Fantasy Vol.II (Historica Edizioni) e Non bastano le intuizioni (Sensoinverso).
Ha infine scritto recensioni cinematografiche su diverse testate, fra cui Il Mucchio e Scheletri.
Belial – Le radici del male è il primo romanzo per Edikit.

Recap:

Titolo: Belial
Autrice: Maria Elena Cristiano
Genere: horror
Editore: Edikit
N. di pagine: 258
Data di uscita: 31/11/2020
Prezzo: € 14
 ebook: € 3,49
Link: Amazon

mercoledì 13 gennaio 2021

THE WOODCUTTER, FILM THRILLER HORROR DI MIRKO ALIVERNINI

Un thriller mozzafiato firmato Mirko Alivernini

 


Non si arresta l’ascesa del regista romano Mirko Alivernini, nuovamente pronto a stupire il suo pubblico con il film “The Woodcutter”. L’opera è un thriller horror - psicologico con protagonista l’attrice Paola Lavini, candidata al Globo D’oro 2020, disponibile dal 25 dicembre su Amazon Prime.

Mirko Alivernini, innovatore nel settore audio – video per la tecnica di ripresa e per l’utilizzo di nuove tecnologie, si è affidato a un cast di attori di talento per il suo lavoro: Roberto Rizzoni, Enzo Garramone, Domenico Rolando Astone, Fabio Martorana, Luigi Converso, Mauro MascittiGiulio Dicorato Jole Risi.

Il regista, primo in Italia a utilizzare nelle sue opere una tecnologia a doppia intelligenza artificiale, è anche autore e produttore del progetto con la sua casa di produzione “Mainboard Production”.




“La mia più grande scommessa è stata Fabio Martorana che, oltre ad essere un volto nuovo nei miei progetti, è oggi in grado di interpretare più ruoli grazie al suo talento e alla sua dedizione.

Paola Lavini non ha bisogno di presentazioni, è un’attrice straordinaria così come lo stesso Rizzoni Garramone, Luigi Converso e Mauro Mascitti, ma tutto il cast è veramente degno di nota” queste le parole di Mirko Alivernini sugli attori scelti per interpretare la sua nuova opera.



Il lavoro cinematografico è ambientato in un piccolo paesino dello Utah dove si verifica un cruento fatto di cronaca: lo sterminio della famiglia Gregor da parte di alcuni giovani del luogo.




Attraverso colpi di scena avvincenti, suspence e interrogativi inquietanti, Mirko Alivernini regala al suo fedele pubblico un’opera stupefacente per narrazione e tecnica.





lunedì 11 gennaio 2021

SEGNALAZIONE: IL SIGNORE DI NOTTE DI GUSTAVO VITALI

 Un giallo storico ambientato nella Venezia dei dogi



Cari Serenissimi, Il signore di notte è un giallo storico ambientato a Venezia nel 1605, scritto da Gustavo Vitali e autopublicato.


Leggiamo una presentazione del romanzo:

Il 16 aprile 1605 in una cadente casupola di Venezia viene rinvenuto il cadavere di un nobile ridotto in miseria.

 

Sul luogo del delitto si precipita il protagonista, Francesco Barbarigo, un aristocratico non privo della boria di casta e che riveste la carica di Signore di Notte, sei magistrati e insieme capi della polizia, sovraintendenti all’ordine pubblico in città.

Persuaso dapprima di essere all’altezza di risolvere il caso, invece affiora presto la sua assoluta inadeguatezza, a partire dalla mancanza di esperienza. Altezzoso, pasticcione, goffo e perennemente indeciso sul da farsi, si muove a casaccio, segue piste fantasiose, ma non ammette la propria incompetenza, anzi, addirittura vorrebbe spargere una sicurezza dalla quale è assai lontano. In verità si è arrogato il compito con superficialità e presunzione e di questo non tarda a pentirsi. Finirà perfino con il confidare nel caso tra tormenti e intemperanze.

 

Sull’onda dei suoi voli pindarici il Barbarigo non si fa mancare nulla: indaga sul garzone che ha scoperto il cadavere e sulla serva della vittima, per passare a una guardia erroneamente ritenuta corrotta, a un mercante ebreo sospettato di usura, poi al mondo dell’azzardo e infine a un pericoloso bandito al quale dà una lunga e infruttuosa caccia. Tutti sarebbero gli assassini ideali perché hanno avuto rapporti con l’ammazzato, ma i fatti li scagioneranno inesorabilmente, rimettendolo ogni volta alla casella di partenza di un crudele gioco dell’oca.

 

Nel contempo in soccorso dello sprovveduto arriva un capitano delle guardie che ha tutta l’esperienza che a lui manca: Domenico Stella, una sorta di alter ego. Svolge anche il ruolo tutt’altro che facile di mitigare gli eccessi del Signore di Notte e instradarlo verso la meta senza offendere il suo smisurato amor proprio.

 

Mentre le indagini non approdano da nessuna parte tra agguati, nuovi delitti e quelli che riemergono dal passato, colpi di scena giunti a sovvertire anche le poche certezze acquisite, la trama si infittisce ulteriormente. Si scopre che nelle tasche della vittima, Nicolo Duodo, sono passati molti soldi, ma non se ne conosce la provenienza e stranamente non l’hanno neppure levato dalla miseria. Nel ripercorrere la sua carriera politica, il racconto si sposta a Murano dove il Duodo ha vissuto per un breve periodo ricoprendo la carica di reggente dell’isola. Qui un’altra mano giunge in aiuto dei due investigatori: è quella di Coriolano Benzon che ha sostituito il Duodo come podestà. Tuttavia è Venezia a restare costante sullo sfondo, quasi fosse la protagonista vera e muta.

 

I principali personaggi del libro, a partire da Francesco Barbarigo, sono realmente vissuti all’epoca. Per incastonarli al posto e al momento giusti nella vicenda, che al contrario è di pura fantasia, l’autore ha dovuto affrontare un lungo lavoro di ricerca. Questo aggiunge un valore documentaristico a quello che comunque resta un giallo fitto fitto.

 

Inoltre, in mezzo a tante contorte e intriganti vicende, si aprono spaccati della società veneziana del tempo, sui suoi usi e costumi, leggi, aneddoti e altro ancora. Il lettore è messo dinanzi a questi brevi accenni che, tuttavia, non interrompono la trama, ma la contestualizzano nel mondo di allora, in particolare quello del ceto patrizio al potere. Si spiega perché ci si sposava tra nobili e tutto il complicato rituale, perché a Venezia si era arrivati a censire fino a dodicimila tra prostitute e cortigiane, i devastanti effetti della diffusione del gioco d’azzardo, fino a leggende e ricette di cucina. Dalla storia vera è stato ripescato lo stravagante motivo della costruzione del palazzo dove il giallo troverà il suo epilogo. L’affondamento di una nave e la perdita delle mercanzie trasportate, fatto realmente accaduto e descritto in modo meticoloso, comincia a rischiarare il buio nel quale si sono infilati lo Stella e il Barbarigo, ma non basta.

 

Nel contempo appare sulla scena tutto un ventaglio di figure in mezzo ad accurate descrizioni di luoghi e personaggi. Alcuni di costoro si muovono circospetti e con una prudenza esagerata, come consapevoli dello splendore che si sono lasciati alle spalle, perduto e irripetibile, ma incapaci di immaginare il lento e lungo declino che li aspetta.

Ecco quindi ricconi e chi vivacchia appena, burocrati e mercanti, sgherri e confidenti, bari e frequentatori delle bische, nobildonne e rampolli di buona famiglia, categorie emarginate quali gli ebrei e tanti altri. Poi figure sgradevoli come i “bravi”, accomunati alla sbirraglia da un fare violento e sopraffattore perché il tempo tra la fine Rinascimento e poi tutto il Barocco è anche il loro.

 

Il protagonista è descritto come un uomo complicato, che soggiace al riemergere di vicende dolorose del passato, incapace di liberarsene, attanagliato dalla costante preoccupazione di salvare nome e onore del casato, oltre che la propria faccia. È l’opposto dell’eroe positivo, dell’investigatore sapiente e acuto, figure dalle quali volutamente l’autore si è tenuto alla larga. Con un linguaggio crudo, dissacratorio, a tratti schernitore e sarcastico, il Barbarigo è sbeffeggiato per la sua goffaggine e per gli esilaranti fallimenti.

Il ridicolo dei suoi difetti e difettucci migra a quelli della società dell’epoca, ma non mancano tratti celebrativi della grandezza della Serenissima, una grandezza durata undici secoli, tredici secondo alcuni.

 

Per lo più Francesco, che in ossequio alla tradizione deve restare scapolo in quanto primogenito di un casato patrizio, finisce nel letto di una dama tanto bella quanto indecifrabile e della quale nulla comprende. Vorrebbe che fosse una relazione disinvolta, gusto per il proprio comodo, ma nel suo intimo si agita qualcosa di diverso e temuto: l’innamoramento. È per lui una vera sfortuna oltre che fonte di nuove angosce, perché questo sentimento lo ha già vissuto ricavandone solo dolore.

 

Intanto le indagini languono e il Signore di Notte passa da una batosta all’altra. Alla fine il suo ruolo si zittisce, riesce a mettere da parte l’arroganza e accodarsi allo Stella e al Benzon che hanno preso in mano le redini della situazione. È una decisone saggia che darà i suoi frutti, ma per dipanare la matassa servirà ancora un bel pezzo e la confessione di un testimone, non del delitto del 16 aprile, ma di un altro di qualche anno prima.

Solo nel finale al lettore appariranno tutti i tasselli, anche i più minuti, al posto giusto. Sarà un epilogo del tutto inatteso, sorprendente e dal quale il Barbarigo risorgerà come un uomo nuovo.



L'autore Gustavo Vitali ci fornisce un ampio estratto del primo capitolo:

Capitolo 1

Il corpo esanime del nobiluomo Nicolo Duodo, settantotto anni, due volte vedovo, famiglia annoverata tra le “Case Nove” nel Libro d’Oro della Serenissima Repubblica di Venezia, giaceva bocconi disteso davanti al lungo tavolo ingombro di carte e disposto in diagonale a chiudere un angolo della stanza.

Un braccio piegato sopra il capo, con il palmo della mano rivolto in basso, era rimasto appoggiato malamente al seggiolone in legno scuro, rovesciato con tutta probabilità in seguito alla caduta dopo il colpo letale che aveva spedito l’uomo a miglior vita. Altri due seggioloni identici, uno dirimpetto a quello rovesciato, l’altro sul lato opposto del tavolo, quasi nel cantone della stanza, erano rimasti al loro posto. La luce del giorno penetrava dalla finestra in parte oscurata da un vecchio panno, poco più di uno straccio, messo a sostituire un vetro rotto.

Il colpo mortale era stato sferrato alla testa. Questa posava di lato nella vasta chiazza di sangue sul pavimento, sangue fuoriuscito dal cranio, colato giù lungo il collo e la faccia e andato a coprire le doghe consunte del parchetto. Altro sangue sulla gorgiera e sul farsetto blu scolorito che mal si intonava con le braghe color ocra; ancora sangue a impiastrare i capelli grigi e la guancia appoggiata a terra. Qualche carta dal tavolo era stata trascinata dal rovinare del corpo ed era finita sul pavimento.

Non era difficile individuare l’arma che aveva ammazzato il Duodo: un pesante candelabro a due bracci giaceva riverso poco lontano dal cadavere. Schizzi di sangue andavano scemando sul parquet via via che si allontanavano dal corpo. Due mozziconi di candele si erano sbriciolati nell’urto e le schegge stavano sparse a terra insieme a grumi di cera.

Un altro candelabro, copia esatta del primo, era rimasto al suo posto appoggiato sull’angolo opposto del tavolo, trattenendo infimi moccoli di candela. La cera squagliata era colata nei piattini sotto i sostegni prima di rassodarsi. Altre gocce di cera mai rimosse incrostavano il piano del mobile e formavano un cerchio attorno al basamento, simile a quello che indicava la posizione del candelabro rovesciato. Sul tavolo c’erano qualche soldo d’argento, un medaglione con uno stemma araldico, penne d’oca, un calamaio e tutto il necessario per la scrittura: molti fogli di carta, lettere, manoscritti, codici, stampe di leggi e decreti con alcuni libri. Una scodella con un cucchiaio era appoggiata tra le carte e le mosche ronzavano attorno facendo festa ai rimasugli di chissà quale brodaglia.

Il Signore di Notte al Criminal, braghesse scarlatte a coscia di pollo, giubbone e berretto alto di tono più scuro, tabarro sulle spalle, se ne stava a testa alta, mento in fuori, mani dietro la schiena, ritto al centro della stanza disadorna che pretendeva di conservare una qualche dignità con un paio di quadri scadenti in cornici pompose. Si vedevano poi una spada schiavona, arma con elsa a cesto prediletta dalle truppe degli schiavoni, mercenari dalmati al servizio della Serenissima, senza particolari fregi appesa al muro accanto a una libreria che doveva aver conosciuto fasti migliori. Un sofà trasandato e qualche suppellettile non rimediavano affatto allo squallore dell’ambiente.

Dalle maniche e dal bavero della giubba di Francesco Barbarigo, il Signore di Notte, fuoriuscivano in bella mostra “lattughe” pieghettate con cura a guarnire polsi e collo di una camicia bianca, quasi immacolata se non fosse stato per una piccola ma fastidiosa e imbarazzante macchia di chissà cosa caduta su un polso a deturparne il candore. Se ne era accorto dopo essere uscito di casa, troppo tardi per rientrare a porvi rimedio.

Qualche oggetto ornamentale di vago prestigio posava sull’architrave del camino, insieme a un’ampolla di vetro opaco, a un mortaio di bronzo con il pestello accanto, a un candeliere di porcellana e poco altro. Parte dell’intonaco era cadente, soffitto basso, niente stucchi o affreschi, chiazze di umidità qua e là lungo le pareti annerite dal tempo, dalla fuliggine e dal fumo del camino che non veniva pulito da chissà quanto tempo.

Francesco non avrebbe potuto definire miseria quanto stava osservando, ma di sicuro grande decadenza. Lo stato precario dell’alloggio gli dava un disagio amplificato da un fievole lezzo di marciume e di aria viziata. Provò fastidio nel guardarsi intorno, ancor più quando osservò carte e stampati ammucchiati alla rinfusa sui ripiani bassi della libreria e sul tavolo, manoscritti con note scarabocchiate, cancellazioni e qualche macchia d’inchiostro su libri contabili che segnavano solo zecchini da pagare. Provò altro fastidio di fronte ai volumi impilati alla bell’e meglio, con i dorsi strappati e i titoli ormai illeggibili, residui di opere che in precedenza avevano sfoggiato la loro eleganza. Altri libri si mescolavano alla rinfusa tra le scartoffie, aperti tra le carte, e lasciavano intravedere pagine sgualcite. Non mancava la polvere e tanto, tanto disordine.

Inutilmente l’Officiale di Notte difendeva narici e olfatto dal fetore con un grazioso fazzoletto. La presenza di insetti era del tutto normale, anche se qui più numerosi che altrove, ed egli non prestò alcuna attenzione a questi animaletti compagni degli umani anche in dimore più agiate.

Lungo una parete giaceva un divano parecchio malconcio, coperto alla rinfusa da un nutrito campionario di cuscini di foggia, colori e dimensioni disparate, segnati da macchie e macchioni, con i ricami sgualciti: non incoraggiava certo a sedersi. Francesco si convinse definitivamente che, se quella non era miseria, ben poco ci mancava.

Due calici, residui spaiati di cristallerie ormai disperse, poggiavano su un tavolino accanto al divano: un “servo muto”, sorridente e immobile, rappresentava un piccolo moro nel gesto di porgere un vassoio al padrone. I bicchieri erano incredibilmente lindi come pure l’ampolla posta accanto, finemente decorata, mezza piena di una qualche mistura alcolica. Il Barbarigo levò delicatamente il tappo di vetro per annusarne il contenuto, ma il forte odore gli risultò sconosciuto e richiuse l’ampolla. Osservò meglio i calici, tendendo il braccio verso la luce che penetrava dalla finestra, senza notare tracce di bevande o impronte di labbra. Constatò pure come nessuna goccia fosse caduta a macchiare il tavolino. Nessuno aveva bevuto da quei bicchieri.

All’ingresso dell’abitazione che dava su Corte Loredan, e questa a sua volta sulla stretta calle omonima in contrada di San Marcilian nel sestiere di Cannaregio, le teste di alcuni sbirri facevano a turno brevi capolini ritraendosi di botto, avanti e indietro, prima uno poi l’altro, senza osare varcare la soglia perché il Barbarigo aveva vietato loro di entrare. L’intenzione avrebbe voluto garantire che testimoni, tanto poco affidabili quanto loquaci, divulgassero poi voci disparate e incontrollabili sul morto d’alto lignaggio a dispetto dell’alloggio scadente e della miseria.

Non sarebbe stato così, perché un omicidio in questa Venezia del 1605, sotto la signoria del doge Marino Grimani, si sarebbe ben prestato al pettegolezzo e alla morbosità del popolino, tanto più che la vittima era un patrizio, sebbene con disponibilità economiche non all’altezza del rango, un membro del ceto nobiliare che nella Serenissima Repubblica deteneva le chiavi del potere. Tuttavia l’ordine aveva impedito agli sgherri di cedere al vizio di rubacchiare frugando tra le cose del defunto, una consuetudine ben risaputa. Cosicché, tolta la possibilità di allungare le mani su qualche misero bottino, ai tutori dell’ordine era rimasta solo la povera soddisfazione di intrufolarsi con occhiate furtive tra le miserie della casupola in cui un nobile aveva condotto una dura esistenza scivolando lungo la china della povertà.

Il resto della casa, un paio d’ambienti senza grandi fronzoli e nessun mobilio di pregio, non appariva disordinato come la stanza del ritrovamento, segno evidente di una mano amica che li teneva in ordine. Davvero strana abitudine, pensò il Barbarigo, perché un visitatore sarebbe stato accolto nello stanzone centrale, quello più lercio, tra polvere e disordine, certo non in camera da letto o in cucina. Ma cambiò subito idea: forse al defunto non piaceva che gli occhi di un eventuale domestico cadessero sulle sue carte. Oppure semplicemente gli andava bene così.

Dalla presenza del denaro sul tavolo e dall’uscio intatto il Signore di Notte pensò di poter escludere il delitto di un ladro sorpreso all’opera, un furto finito male, insomma. E poi, che tesori pensava di trovare un malvivente in quella casupola? Escluse pure che l’intruso avesse rovistato tra i documenti, perché il soqquadro della stanza gli parve cosa vecchia come la polvere sulle pile di carta.

Nell’ambiente che doveva fungere da cucina e dispensa tutto era riposto in buon ordine e pulizia. Un letto ben rifatto confermava la presenza di un servitore, magari di quelli tanto affezionati da seguire i padroni anche nella miseria, a condividerne stenti e privazioni. O forse uno schiavo comprato quando le cose andavano meglio e adibito a “famégio”, cioè a domestico, come la stragrande maggioranza degli schiavi a Venezia. Ma il Barbarigo scartò subito l’idea che un poveraccio come il Duodo fosse mai stato in condizioni di acquistarne uno.

Nella camera padronale un ingombrante letto a baldacchino troneggiava tra due seggioloni identici a quelli accanto al tavolo, con una cassapanca ai piedi e un basso armadio di lato. Su cuscino e coperte l’impronta di un corpo che si era adagiato senza infilarsi tra le lenzuola. Due ritratti degli avi di Nicolo che sembravano guardarlo severi negli occhi stavano appesi alla parete in cui si apriva la porta che dava sull’ambiente principale. Poca luce dalla finestra per gli scuri rimasti accostati.

La cassapanca gli ricordò d’averne vista un’altra in cucina, più grezza e che aveva perso gran parte della tinta originale, un verde che da nuova doveva essere stato sgargiante. Tornò in fretta nel locale per aprirla: ne uscì qualche indumento femminile, un paio di lunghi camicioni dai ricami stinti, corpetto e gonna per le grandi occasioni ancora in buono stato, un paio di scialli bianchi, e altre cosucce.

Lasciò ricadere il coperchio del baule e si precipitò all’uscio. Il rumore del botto mise in rapida fuga uno sbirro più curioso degli altri che si era avventurato poco oltre la soglia. Il Barbarigo chiamò a voce alta il capo contrada, che se ne stava a bighellonare con le guardie.

«Dite, missier!» rispose quello.

«La serva ... la serva del nobile Duodo, sapete chi è costei?» incalzò il Barbarigo.

«Si chiama Apollonia, missier.»

La donna si chiamava davvero Apollonia, “detta anche Polonia”, aggiunse quello piccandosi di una precisione che non era affatto tale. Infatti rimase a bocca aperta quando tentò di ricordare il cognome. Il Barbarigo sorvolò e diede ordine di trovare questa Apollonia e di farlo in fretta. L’altro lo rassicurò con un cenno del capo, una specie di mezzo inchino frettoloso. Poi chiese cosa comandava il Signore di Notte riguardo al garzone che aveva scoperto il corpo dell’ucciso, tale Ferruccio.

«…Ferruccio Longheno, il figlio maggiore di…» stava tentando di precisare in vena di riscatto, ma il Barbarigo tagliò corto e decise in un baleno di sentire questo Longheno. Mentre si voltava per rientrare nella casetta cambiò repentinamente idea: l’avrebbe convocato in seguito, non ora, disse in tono perentorio. Il capo contrada annuì di nuovo con un altro cenno del capo.

 

Nel primo mattino del 16 aprile 1605 i rari passanti lungo la fondamenta dei Mori nei pressi di San Marcilian erano incappati con sorpresa nella corsa affannata di un ragazzone, Ferruccio Longheno, figlio di una popolana rimasta vedova dopo aver perso il marito in mare. Ferruccio si guadagnava il pane come garzone di un bottegaio della stessa contrada di casa Duodo.

Il ragazzo era balzato fuori all’improvviso dalla stretta calle Loredan, correndo come un ossesso e liberandosi da chi tentava di trattenerlo. Ansimava forte e dalle sue parole non si era capito nulla dell’accaduto, perché ora erano grida, ora farfugli. C’era voluto del bello e del buono per ricondurlo a un minimo di calma e fargli raccontare del ritrovamento di Nicolo Duodo ormai cadavere. L’agitazione di Ferruccio aveva attirato l’attenzione di altri passanti, poi qualcuno si era infilato nella casa del morto indicata dal garzone.

La fortuna volle che uno dei capi contrada abitasse lì vicino e accorresse in breve tempo, buttato giù dal letto dalle urla sguaiate di un bottegaio corso sotto casa sua per metterlo in allerta.

Fin dai tempi più remoti l’ordine pubblico in città era affidato principalmente ai Signori di Notte al Criminal, magistrati e al contempo capi della polizia. Nel corso dei tempi questi erano aumentati da due fino a sei patrizi eletti dal Maggior Consiglio, uno per sestiere. Alle loro dipendenze altrettanti capi sestiere, pure questi scelti tra i membri del patriziato. A costoro erano stati in seguito affiancati due responsabili per ciascuna contrada, i capi contrada, anticamente al comando di milizie popolari dette “duodenae” perché costituite ciascuna da dodici uomini, pronte a intervenire soprattutto in casi di particolare turbamento dell’ordine pubblico.

Successivamente, agli originari capi sestiere ne erano stati aggiunti altri sei eletti dal Consiglio dei Dieci: una serie parallela alla prima con mansioni di polizia di concerto e talora in concorrenza con i Signori di Notte, nonostante dipendesse da questi ultimi.

A questi si erano aggiunti i Cinque Savi della Pace, magistrati ai quali spettava di perlustrare le calli a capo di altre guardie armate per reprimere risse e punire chi fosse stato sorpreso a portare armi senza autorizzazione. In pratica con analoghe funzioni dei Signori di Notte e come questi eletti nel ceto patrizio, ma restavano questi ultimi l’autorità primaria posta a controllo dell’ordine pubblico nel territorio urbano.

Nel giorno in cui fu scoperto il cadavere di Nicolo Duodo i capi sestiere avevano cessato di esistere da una sessantina d’anni, sostituiti dai Signori di Notte al Civil, sempre nobili e sempre uno per sestiere. A costoro erano state attribuite competenze civili e penali: procedere contro inquilini morosi e sfratti, frodi commerciali, mancata consegna di merci, esami di testimoni richiesti all’estero, esecuzioni di sentenze straniere, vendita di pegni, facoltà di bandire dalla città i malavitosi, arrestare i banditi, gli omicidi, i ladri, i feritori, le meretrici, perseguire le ingiurie e altro ancora.

Era rimasta ai Signori di Notte al Criminal una più specifica competenza per le indagini di polizia e la facoltà di procedere in istruttoria contro delitti di sangue, porto d’armi, reati carnali dei servi, bigamia, assassini, ladri, vagabondi, perseguire i delitti contro proprietà, onore, buon costume, stregonerie, filtri, malefici, stupro, percosse, associazione a delinquere e sorvegliare le danze notturne. Per alcuni reati procedevano direttamente al giudizio, mentre per altri intromettevano i processi ai Giudici del Proprio.

Qualcuno sosteneva che tra tanta gente, con tanto di titoli e titoloni, confusione e conflitti di competenza fossero all’ordine del giorno, in un guazzabuglio di sovrapposizioni d’incarichi e attribuzioni dal quale si doveva penare per venir fuori. Non era del tutto vero, sebbene in tema di ordine pubblico avessero parola anche l’Avogaria de Comun, i magistrati della Giustizia Nuova, gli Esecutori Contro la Bestemmia e altri ancora.

Appena giunto sul posto questo capo contrada, persona esile, piccola di statura e dal carattere mite, prese Ferruccio e lo tirò da parte con le buone. Il garzone riuscì a spiegare l’accaduto: aveva scoperto il cadavere di un cliente del bottegaio suo padrone. Tutto qui, ma lo spavento era stato grande.

Il capo contrada non perse tempo e mandò un volenteroso ad avvertire il suo collega, mentre ne “arruolava” in fretta e furia altri quattro. Questi furono messi a guardia all’uscita di calle Loredan su fondamenta dei Mori; erano fin troppi, visto il budello talmente stretto da lasciar passare a fatica due persone fianco a fianco. L’ordine tassativo era di allontanare chiunque in modo che non un’anima si intrufolasse nella corte. Non fu quindi un gran problema bloccare l’accesso al luogo del delitto, visto che la calle non aveva altri sbocchi.

L’altro capo contrada e i suoi uomini non si fecero attendere e presto un manipolo dal passo deciso e dall’aspetto baldanzoso scavalcò il ponte che dava sulla fondamenta, poco più che una passerella di assi allungate tra le due rive. Al centro si trovava una barca sulla quale le assi poggiavano a formare una cosiddetta “tola”, potendosi levare rapidamente per lasciar passare i natanti. Quegli uomini vestivano braghe e farsetti ampi in prevalenza di colore scarlatto, con larghi tagli sulle maniche, mentre i calzoni erano allacciati in vita da stringhe che si intravedevano sotto la fascia di cuoio, cui era appesa la spada, calze fin sopra il ginocchio, in testa un berretto nero.

A differenza del collega, questo capo contrada era decisamente altezzoso: fisico tarchiato e grossa testa a sorreggere una vecchia berretta a tegame rovesciato che aveva perso ogni lustro fino ad apparire ridicola se paragonata ai copricapi all’ultima moda. Tuttavia, la portava con una certa fierezza perché era tutto ciò che restava del tempo, molti anni prima, in cui le fortune della sua famiglia erano state ben diverse e sostanziose. In seguito gli affari erano andati male, sempre peggio, e ora si trovava ridotto a vivere in uno stato che gli riempiva l’animo di cattiveria e di malevolenza verso il mondo intero, un mondo che ai suoi occhi appariva avvantaggiato da una fortuna a lui negata.

Pelle scura, barba incolta, atteggiamento tra il tracotante e il furbesco, occhio vigile a scrutare intorno quasi a voler acchiappare pure il volo di una mosca, un mezzo sogghigno stampato sulle labbra, sembrava compiaciuto della situazione. Irruppe dunque sul palcoscenico dell’omicidio nella parte di protagonista che si era già assegnato.

Scostante e borioso, i suoi modi mutavano bruscamente fino a sfoderare l’atteggiamento più prono quando era giocoforza confrontarsi con qualcuno più in alto di lui. Questo misto di arroganza e prevaricazione con i sottoposti, cui facevano da contraltare remissività e deferenza verso i potenti, era mal digerito dai primi che non sopportavano affatto di essere trattati con disprezzo e supponenza, neanche fossero stati tutti stupidi e malfidati. In compenso, i secondi raramente cadevano nella trappola dell’ossequio.

L’altro parigrado, scaraventato dritto dal sonno in una storia di sangue, fu presto fagocitato dal gradasso. Non trovò di meglio che ritagliarsi il ruolo dell’eterno consenziente, più spesso muto che interlocutore, sperando in cuor suo che finisse presto.

Nel trambusto di quella mattina il prepotente non perse occasione di fare sfoggio di tutta la sua protervia. Si rivolse ai presenti con sguardo astuto, anche se non era affatto scontato che lo fosse, e volle sapere ogni particolare, ripetendo più volte le stesse domande con l’intento di trarre gli interrogati in contraddizione. Osservava le reazioni tra il diffidente e il beffardo, alla ricerca di un aggancio da sfruttare a suo comodo per dimostrare quanta poca cosa fossero loro e quanto abile a capire, dedurre e spiegare fosse invece lui.

Rincarò la dose quando fu la volta di Ferruccio Longheno, sottoposto a una raffica di brusche domande condite da pesanti minacce. Lo prese per le vesti, volarono accuse e perfino un paio di ceffoni. Il tutto saltando di palo in frasca e spesso ghignando sospettoso alle balbettanti risposte del poveraccio, che quasi sembrava un reo in atteggiamento di chiedere clemenza a un giudice spietato. Che ci faceva lì? Chi lo aveva mandato? Com’era entrato in casa Duodo? Dov’era la cesta delle vivande? Era venuto da solo? E via dicendo. A nulla valse tanto accanirsi: i fatti nudi e crudi recitavano inequivocabili che il povero garzone aveva rinvenuto il corpo di uno sventurato. Niente di più.

Nel frattempo, i guardiani occasionali messi a sbarrare l’ingresso di calle Loredan erano stati rilevati da un paio di guardie. Un’altra coppia si era messa a presidio dell’ingresso della corte sulla calle. Un ulteriore varco sul lato opposto dava dritto su un canaletto ed era chiuso da inferriate, quindi senza bisogno di custodi.

I due capoccia entrarono nella corte trascinandosi dietro il povero Ferruccio che ancora non si era ripreso dalla dura inquisizione e, bianco in viso come un cencio, non mostrava affatto voglia di seguirli. Finestre e usci delle casupole che davano sullo spiazzo erano tutti un affacciarsi di donne, mamme con i pupi in braccio, uomini vecchi e giovani, fanciulle e bambini, la morbosità dipinta sulle facce insieme alla preoccupazione di restare coinvolti nel fattaccio. Si sentivano al sicuro tra le proprie mura e nessuno si azzardava a uscire in cortile, dove si contavano solo sbirri. Eppure nessuno rinunciava a sbirciare da finestre e finestrelle.

Il ragazzo si limitò a indicare l’uscio di casa Duodo, guardandosi bene dall’entrare per non ritrovarsi ancora il morto davanti agli occhi. Vi entrarono invece i due responsabili della contrada: un’“acuta” deduzione del gradasso ipotizzò che il cadavere fosse proprio quello del padrone della dimora.

Il primo e docile capoccia se ne stette zitto, lasciando prendere una decisione al burbero collega. Questi aveva perso gran parte della sua sicumera e non sapeva cosa fare: interrogare i vicini, perquisire la casa, torchiare ancora il garzone, oppure scaricare il tutto su chi gli stava sopra? Senza degnarsi di interpellare il compagno, scelse la seconda e più comoda soluzione a scanso di possibili grattacapi visto il rango della vittima e la gravità del fatto. Gli sibilò, quasi fosse stato un subalterno, di mandare qualcuno ad avvertire i Signori di Notte. L’altro si precipitò a eseguire l’ordine.

Nell’attesa che arrivasse chi di dovere a farsi carico delle indagini, il primo sperando di levarsi dagli impicci e l’altro per levarsi dai piedi il prepotente, i due si posero a guardia dell’uscio. La posta fu di breve durata perché il gradasso mutò parere e decise di svolgere qualche accertamento per conto suo, tanto per non presentarsi a mani vuote a chi sarebbe subentrato e magari subirne il biasimo. Sguinzagliò le guardie a interrogare il vicinato, che fu lesto a rintanarsi in casa. Gli sgherri dovettero bussare forte e chiamare porta per porta; urlarono contro chiunque capitasse a tiro ponendo una ridda di domande con tono tanto minaccioso che riuscì solo ad aumentare il timore dei popolani. La curiosità della corte si dissolse come per incanto e nessuno rimase a far capolino.

Al contrario, le cautele prese per tener lontano la gente da calle Loredan si erano rivelate quanto mai opportune. Infatti, con l’avanzare della mattinata, San Marcilian era andata via via animandosi. Com’era prevedibile, la notizia si era sparsa ovunque e calli, campielli e fondamente circostanti erano diventati tutto un vociare di cittadini che, abbandonate dimore, botteghe e pure gli affari, si erano affrettati incuriositi verso il luogo del misfatto. Non ci volle troppo perché molta gente si radunasse dove la calle sbucava in fondamenta dei Mori, proprio dove poco prima era stato intercettato lo sconvolto Ferruccio.

La folla era variopinta perché tra i popolani erano d’uso abiti coloratissimi, soprattutto nelle vesti delle donne dove il rosso spadroneggiava sulle altre tinte. Colorate erano pure le “tonde”, cioè i grembiuli, le “carpette”, sottane in tessuto di Damasco molto diffuse e indossate sotto le “soprane”, ovvero le vesti di sopra di velluto liscio e monocolore. Di colori vivaci pure i corpetti chiusi davanti da un cordoncino. Da poco il pesante busto di ferro a punta, ritenuto responsabile di danni fisici alle donne gravide, era stato soppiantato da quello a stecche di legno o d’osso, universalmente indossato da adulte, ragazze e bambine. Quasi tutti bianchi i “ninzioleti”, sorta di mantelline di tela fine o di mussola a coprire capo e spalle.

Note di colore, ricami e preziosi ornamenti contrassegnavano anche gli abiti maschili di panno, di velluto, di raso e altre stoffe ancora, secondo lo stato di chi li indossava. Le braghe erano entrate da tempo nell’uso comune relegando le calzebraghe d’altri tempi, una sorta di calzamaglia portata da uomini di ogni ceto, a essere indossate al di sotto oppure sostituite da calze lunghe fino sopra il ginocchio. Le camicie dei benestanti, bianche e increspate, chiudevano il collo con la gorgiera, un colletto pieghettato e rinsaldato con amido o stecche.

Il vociare della folla si spegneva d’incanto verso l’imbocco di calle Loredan, dove una silenziosa attesa era rotta solo da sommessi brusii. C’erano ricchi mercanti e signori, facilmente distinguibili dai giubboni finemente lavorati, dai berretti alti e dai tabarri lussuosi, che assistevano da lontano e con ostentato distacco senza mischiarsi al popolino, dissimulando per dignità di ceto il morboso interesse. Mormoravano tra loro più che parlare, mentre altri sopraggiunti andavano ad aggregarsi e chiedevano notizie a bassa voce e ottenendo risposte del tutto vaghe.

I passanti della prima non si stancavano di ripetere e ripetere ancora del Ferruccio che correva agitato, che non riusciva a parlare per il grosso spavento e che ora era trattenuto dalle guardie. Qualcuno aveva cominciato a lavorare di fantasia e il ragazzo era già dato per arrestato, rinchiuso al “cason”. No, anzi, era fuggito. Come? Con l’aiuto di complici. No! Preso dalle guardie e ferito. Naturalmente non mancavano insinuazioni malevole, che mandarono in soffitta ogni riguardo verso l’innocente garzone.

L’arrivo di Francesco Barbarigo non era stato del tutto celere. Intanto, per portare la notizia del ritrovamento del cadavere alle Prigioni Nuove, l’emissario dei capi contrada aveva corso per mezza città che i veneziani chiamavano “tera”. La parola sembrava dettata dal fatto di stare con i piedi all’asciutto sebbene circondati da acqua, ma non era affatto così. In realtà, questo vocabolo rappresentava la percezione e l’individuazione di Venezia come massimo sunto dello stato, la Terra di San Marco. Fuori dalla città e dal Dogado, vale a dire la ristretta fascia litoranea attorno alla laguna, gli altri territori della Serenissima erano domini dove esistevano sudditi, non cittadini. Ma tutto ciò non era affatto nella testa dell’uomo sudaticcio e trafelato che quella mattina si era fatto largo tra la folla che ingombrava calli e campi cercando di abbreviare la strada, di spicciarsi, saltando da un traghetto all’altro per attraversare i canali più grandi e infine il “canalasso”, il Canal Grande.

I traghetti erano barche a uso pubblico che collegavano i vari punti della città. La licenza di possedere una barca pubblica si chiamava “libertà di traghetto” e apparteneva a un padrone che la usava in proprio o l’affittava ai barcaioli. Di questi, meno di dieci anni prima ne erano stati censiti 1741, inquadrati in “fraglie”, vale a dire una struttura corporativa come le arti e i mestieri. Infatti ogni traghetto aveva la sua “mariegola”, cioè il proprio statuto, ed eleggeva un “gastaldo” a rappresentarlo per un anno. Per percorsi lunghi, fino a Marghera, Padova, Treviso, Portogruaro, Vicenza e Verona, erano in servizio barche munite di vela, i “traghetti da viaggio”. In tutto erano stati contati circa diecimila natanti tra grandi e piccoli, adibiti a uso privato o pubblico, per merci e passeggeri, gondole comprese. La categoria dei gondolieri, una razza tradizionalmente linguacciuta e rissosa, era sempre stata numerosa, ma in barca ci dovevano andare tutti non avendo altre vie che quelle d’acqua.

Il messaggero aveva fretta, ma aveva cercato di risparmiare qualche soldo correndo di più e navigando di meno, fino all’ultimo traghetto, uno dei quindici in servizio per attraversare il canalasso sul quale esisteva un solo ponte, quello di Rialto, troppo lontano per gambe troppo stanche. Si era quindi rassegnato a pagare il rituale “bagattino”, uno spicciolo di rame e tariffa per il passaggio stabilita dalla Giustizia Vecchia, ennesima autorità della galassia delle magistrature. Finalmente era riuscito a raggiungere le Prison Nove, mezze finite e mezze no, dove al primo piano i Signori di Notte avevano la loro stanza con obbligo di riunirsi a partire da mezzogiorno fino al tramonto.


Conosciamo l'autore dalle sue stesse parole: 


Sono nato a Milano il 4 agosto.

Non dico l’anno perché al riguardo sono un tantino ritrosetto ...

Da oltre trent’anni vivo nella bergamasca dove mi sono sposato con due figli, Federico e Claudio.

 

Istruzione: liceo scientifico e scienze politiche. Nessuna lode particolare: “È un ragazzo intelligente, ma non si applica abbastanza!” l’invariabile, ancorché poco appagante, giudizio dei miei insegnanti. Cosicché anni dopo la tesi di laurea è finita in soffitta, complice l’attività di famiglia, poi mia, dalla quale sono stato risucchiato. Ho anche fondato e diretto per una dozzina d’anni una rivista di settore,

 

Passioni: il volo in parapendio ultima in ordine di tempo, cosa che mi ha portato a ricoprire da anni il ruolo di ufficio stampa nella FIVL (Associazione Nazionale Italiana Volo Libero – parapendio e deltaplano).

Ovvio che non è stata la passione per il volo a spingermi a scrivere “Il Signore di Notte”, un giallo ambientato nella Venezia dei dogi! Lo è stata, invece, quella per la storia, da sempre. Ricordo che da ragazzino preferivo i sussidiari ai fumetti e leggevo la storia antica come fosse un romanzo d’avventura. Il vizio è rimasto in giovinezza e poi oltre, fino a oggi. Però come sia sorto l’interesse per la storia dell’antica Serenissima in particolare non saprei dire. Fatto sta che ho cominciato a leggere autori come Alvise Zorzi e altri storici che si sono occupati della sua storia lunga undici, forse tredici secoli.

 

Quindi sono un lettore a senso unico: storia e ancora storia con qualche deviazione per la letteratura gialla. Classici quanto basta: I Promessi Sposi e I Miserabili (in francese!) me li hanno fatti ingozzare al liceo insieme a qualche cantico della Divina Commedia da recitare poi a memoria. Scampato all’Orlando Furioso. Poi ho affrontato Addio alle Armi, ma ho resistito solo fino a metà del libro, ancora meno Guerra e Pace. Divorati Granzotto & C.

 

Congiunto alla passione per la storia, il vizio di non saper trattenere la penna dalla carta, ai tempi. Oggi neanche i ditini dalla tastiera. Prima la stilografica, poi la Olivetti “lettera 32” e infine con il personal fin dagli anni ’70, quando costavano un botto.

Ecco perché “Il Signore di Notte” è insieme un racconto giallo con brevi riferimenti storici, una trama inventata, ma i personaggi sono vissuti davvero nel 1605, l’epoca dove l’ho ambientato. Grande soddisfazione.

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 Recap


  • Titolo: Il signore di notte
  • Autore: Gustavo Vitali
  • Genere: Giallo storico
  • Editore: self published
  • N. di pagine: 518 (variabili a seconda dell'edizione)
  • Prezzo: € 19,79
  •     ebook: € 9,99
  • Link: Amazon