In occasione del Natale vi regalo questo racconto di genere paranormale, che ha partecipato al contest sul gruppo Facebook "Scrittori & lettori fantasy" per la pubblicazione su JobOk Magazine, classificandosi terzo.
Le vicende narrate sono ispirate a fatti realmente accaduti a me medesima qualche anno fa...
Buone Feste !
Gli “altri” sogni
Come
ogni estate, anche quell’anno mi trovavo a trascorrere le vacanze nella
cosiddetta “la residenza estiva”, una
villetta al mare ereditata dai nonni, situata a Lavinio, nei pressi di Anzio.
Le
mie giornate trascorrevano tutte uguali: di mattina andavo in spiaggia di
buon’ora, per evitare la confusione;
pranzavo a casa, facevo una pennichella sul letto e poi, nel pomeriggio,
mi dedicavo alle letture, sdraiata nell’amaca tra due pini nel giardino,
sorseggiando bibite fresche: unico brivido, le pigne che avrebbero potuto
piovermi in testa da un momento all’altro. Prima di cena, una bella pedalata
con la vecchia bici, tanto per ricordare al sangue di continuare a circolare, e
in serata recupero delle serie tv che non avevo potuto seguire durante
l’inverno. Ogni tanto mi recavo in visita
a qualche conoscente; il sabato sera una pizza e una birra al solito ristorantino con i familiari, e la
domenica mattina una passeggiata nella
Riserva di Tor Caldara, in mezzo ai sugheri
e ai lecci, passando tra canyon sulfurei dalle variopinte sfumature che
digradavano dal bianco al bronzo, passando attraverso toni giallognoli. Al
termine del tragitto si ergeva la Torre, che dopo cinquecento anni ancora
proteggeva la costa da un eventuale nemico proveniente dal mare.
Tor Caldara |
Tutte
queste giornate scandite da ritmi lenti
e attività immutabili provocavano in me una sorta di ipnosi da reiterazione,
incrementata dall’incessante frinire delle cicale, colonna sonora di tutte le
mie estati; nei giorni più caldi, l’inattività si faceva ancora più accentuata
e il tedio aumentava.
Quella
notte c’era un insopportabile caldo afoso e quando andai a coricarmi non
riuscivo a prendere sonno, tormentata da umidità e zanzare. Stanca di rigirarmi nel letto, decisi
di fare un giro notturno in sella alla mia bicicletta.
Percorrevo
la via Ardeatina pedalando vicino al
guard-rail, con le macchine che sfrecciavano alla mia sinistra; la strada era
pericolosa e a due sole corsie, con i bordi laterali sconquassati dall’eruzione
delle radici dei pini marittimi. Questi alberi dai tronchi inclinati a causa
delle sferzate di vento intrecciavano le
loro chiome lassù in cima, formando un tunnel naturale sotto il quale pedalavo beata verso Anzio. Non avevo mai
percorso in bicicletta quella strada data la sua pericolosità, eppure invece di procedere con
cautela volavo: le ruote sembravano neppure toccare terra. I rumori giungevano
ovattati , le luci dei lampioni e quelle dei fanali delle automobili erano
amplificate, con aloni enormi, come quando si va dall’oculista e ti inoculano
l’atropina negli occhi per vedere cosa c’è in fondo al tuo sguardo. La luna era
gigantesca, e il suo lucore creava una scia sul mare nero alla mia destra che
sembrava un ponte verso l’infinito.
Prima
del rettilineo imboccai una stradina laterale, un vialetto secondario sulla
sinistra.
Una
scena terribile si materializzò davanti a me: un’automobile si era ribaltata e una donna era restata intrappolata al suo
interno tra le lamiere contorte! Scesi dalla bici al volo, abbandonandola con
le ruote roteanti in mezzo alla strada, e mi precipitai a soccorrere la poveretta:
non so con quale forza riuscii ad aprire lo sportello incastrato, a slacciare
la cintura di sicurezza e a trascinar fuori la donna, che, seppur traumatizzata
e dolorante, riusciva a camminare.
Quando
mi risvegliai la mattina successiva, confusa e stordita, ripensai all’accaduto.
Compresi che era impossibile percorrere
l’Ardeatina quasi scivolando sull’aria, e neppure estrarre una donna dall’auto
con le mie sole forze era plausibile; ciò
che era successo non poteva essere reale, e compresi di aver sognato.
“Ma che strano sogno che ho fatto!”, pensai.
Mi tirai su a fatica, ero più stanca della sera precedente e le gambe mi dolevano,
come se avessi davvero pedalato a lungo. Preparai il mio caffelatte freddo,
presi la pizza bianca e mi sedetti davanti alla tv per ascoltare il telegiornale
regionale del mattino.
L’immagine
che rimandava, col titolone sovrimpresso, era agghiacciante:
“Tragico
incidente ad Anzio, donna muore in auto”.
La
pizza mi cadde di mano e non riuscii a parlare per alcuni minuti, tanto che
anche mia madre si accorse del mio stato di shock; le raccontai così dello
strano sogno che avevo fatto, lasciando anche lei basita.
Mi
preparai in fretta per andare sulla spiaggia: volevo raccontare al più presto la
vicenda a mia cugina Emilia, da sempre appassionata di paranormale. Forse lei
poteva avere una spiegazione plausibile a riguardo.
Non
si meravigliò più di tanto: mentre sguazzavamo nelle acque cristalline, appese
a una boa lontane dalla riva, mi propose di contattare una signora di sua
conoscenza, tale Matilde Boschi, sensitiva
e medium. Avevo già conosciuto in passato una donna con capacità
empatico-precognitive, quindi non avevo riserve al riguardo e accettai con
entusiasmo.
Matilde
abitava nelle vicinanze di Nettuno, nell’entroterra, in una villetta celata
allo sguardo dei curiosi dal verde rigoglioso del suo giardino. Ci accolse con
uno smagliante sorriso sul suo viso curato e con poche rughe; l’età avanzata si
percepiva dalle mani piene di macchie scure e un po’ adunche, per il resto
camminava eretta e spedita ed era molto elegante nella sua semplicità: pochi
gioielli vistosi, un prendisole a fiori e i capelli tinti di biondo raccolti in
uno chignon.
Ci
fece accomodare nel gazebo, abbracciato da roselline rampicanti; mentre ci
offriva del the freddo in un servizio di porcellana inglese, più adatto al the
caldo a dire il vero, mi spronò a raccontare il mio sogno.
Non
mi feci pregare e raccontai l’accaduto con dovizia di particolari.
«Cosa
sai dei sogni, bambina?» mi chiese.
«Beh,
lasciando perdere tutte le implicazioni freudiane e junghiane, so che sono
un’attività psichica che compie il cervello in fase di sonno REM: vediamo
immagini, sentiamo suoni, rielaboriamo ciò che abbiamo vissuto, oppure viviamo
i nostri desideri, o i nostri incubi peggiori…» risposi, tralasciando il fatto
che ormai avevo quasi quarant’anni, altro che bambina!
«Negli
ultimi tempi hanno anche stabilito che si sogna in fase non-REM, durante il
sonno profondo: sono i sogni che non ricordiamo» puntualizzò Emilia,
accendendosi una sigaretta.
«Freud
ha affermato che i sogni sono una porta sull’inconscio; c’è andato vicino! »
ridacchiò l’arzilla vecchietta. «Possiamo dire che sono un portale, un ingresso
verso altri piani dell’esistenza. E poi i sogni non sono tutti uguali: ci sono
quelli di rielaborazione, oppure altri in cui viviamo le nostre vite come vorremmo
che fossero, o ancora incubi terribili… e poi ci sono gli “altri” sogni, quelli
in cui il corpo astrale si distacca dal
corpo fisico e vola altrove. Questo mi sembra proprio il tuo caso» spiegò.
«Corpo
astrale? Cos’è?» chiesi, incuriosita.
«Ma
tu non sai niente, peggio di Jon Snow!» Emilia e io scoppiammo a ridere: anche
l’arzilla vecchietta era fan del Trono di Spade! «Ci sono cinque corpi in ogni
uomo, solo quello fisico è visibile, gli altri non lo sono. Questi sono: il
corpo eterico, che è in soldoni la nostra energia vitale; il corpo astrale o
emotivo, che può distaccarsi dal corpo fisico, ed è il tuo caso; poi ci sono il
corpo mentale, cioè i nostri pensieri, e infine il corpo spirituale, ovvero
l’anima» spiegò. «Non c’entrano nulla i
“sogni dell’Oltre” di Jojen Reed!» concluse, citando di nuovo la famosa serie
di libri e telefilm.
«Ma
perché questo mio corpo astrale è volato a salvare quella donna, riuscendoci,
se invece nel mondo reale è deceduta? » domandai, più confusa di prima.
«Questo
non lo so, ma un motivo ci sarà. Io mi chiederei perché proprio a te sia
accaduto» rispose Matilde, versandomi dell’altro the.
«Ora
mi sta mettendo paura» rabbrividii.
«Ma
no, stellina! Tieni, mangia un biscottino. Li ho fatti io, eh! Sono all’anice!»
Matilde mi porse la biscottiera di porcellana.
Sgranai
una decina di biscotti in pochi secondi, con la tipica voracità di chi è molto
nervoso.
«Per
caso hai avuto un incidente stradale, in passato?» mi chiese, dopo qualche
istante di silenzio.
«Sì!
Come fa a saperlo? L’ho avuto qualche anno fa, sono stata in ospedale due mesi.»
Altra
raffica di biscottini.
«L’ho
percepito. Probabilmente sarai stata “richiamata” tu proprio perché avevi avuto
un’esperienza simile. Perché non cerchi di scoprire di più su questa donna?
Tutti i giornali locali hanno riportato la vicenda, con nome e cognome di
quella poveretta. Pensaci.»
La
sera riflettei molto sulla conversazione; presi il tablet e iniziai un po’ di ricerche online, seduta
sul divano a dondolo del mio giardino: un po’ sui sogni, un po’ sul “corpo astrale”,
e un po’ riguardo la signora deceduta. Scoprii che il suo nome era Simona
Marelli, vedova di soli quarant’anni, con due figli. Non sapevo cosa fare:
chiamare i genitori della donna o peggio ancora i bambini mi sembrava
un’invasione nella privacy, un
intromettermi del loro dolore e raccontare cos’era successo avrebbe potuto
scatenare indignazione e turbamento, insomma mi potevano prendere per pazza.
Accantonai
presto l’idea di comunicare con la famiglia della donna; anche Emilia era
concorde riguardo il fatto di non disturbare la famiglia.
Il
resto dell’estate scivolò via come sabbia tra le dita, anche se ogni tanto il
pensiero di quel sogno “altro” mi turbava e non mi abbandonava, neppure quando rientrai
nella Capitale e ripresi il solito tran-tran quotidiano.
Era
autunno inoltrato quando dovetti recarmi
al cimitero di Prima Porta.
Le
foglie dorate frullavano nei mulinelli d’aria che si creavano all’improvviso e fiori caduti dalle corone
funebri delle persone appena sepolte adornavano anche i vialetti del camposanto
oltre che le sepolture. Avevano appena tumulato una mia anziana prozia,
Antonietta , e dopo il triste rito mi avviai verso un’altra area, dove giaceva
mia nonna Costantina.
Durante
il tragitto raccoglievo i fiori freschi abbandonati al suolo che incontravo sul
mio cammino, finché lo sguardo non si posò su una lapide a forma di croce. Mi
avvicinai, guardai bene la foto e sentii un tuffo al cuore: era lei, Simona Marelli, morta ad Anzio il 7 agosto 2008.
Percepii un ronzio alle orecchie e iniziò a
girarmi la testa. Le mie gambe si erano fatte molli, e mi aggrappai alla croce.
«Grazie»
udii dire alle mie spalle. La voce sembrava provenire dall’Oltretomba, e non
era un modo di dire. Risuonava cupa e lontana, vibrava nella mia testa.
Mi
voltai.
Lei era lì, dietro di me, col volto disteso e
sorridente.
«Perché
mi ringrazi? Io non ti ho salvata. Non ti ho tirata fuori dalla macchina quella
sera. Mi dispiace, non sono arrivata in tempo forse» le dissi, coi denti che mi
battevano, e non per il freddo.
«Oh,
no! Io ero destinata a morire quel giorno: tu hai estratto la mia anima, che
era rimasta imprigionata tra le lamiere come il mio corpo. Una morte violenta
provoca uno shock all’anima, che non riesce a distaccarsi. Ora sto insieme a mio marito, sono serena.
Dal luogo in cui mi trovo veglio sui miei figli. Grazie ancora! Addio!»
Quando
ritornai in me, alcuni operai del cimitero mi stavano sorreggendo e scuotendo; sopra e intorno a me erano sparsi ovunque i
fiori che avevo raccolto.
«Signora…
signora si svegli! Tenga, un po’ d’acqua.»
Rifiutai
l’acqua, ringraziai e raccolsi i fiori che mi erano caduti di mano, spargendosi
intorno. Guardai ancora un attimo la tomba di Simona Marelli, e mi incamminai per la mia strada.
Finalmente avevo avuto le risposte che
cercavo.
Mi
sentii in pace.
Grazie del regalo. Carino. Brava
RispondiEliminaClap, clap. :)