LA PORTA di ALESSANDRA LEONARDI
Carissimi lettori,
per Halloween vi dono questo racconto, riveduto e corretto, uscito qualche anno fa in un'antologia horror.
Buona lettura!
La Porta
Sapevo
che il derby proprio il 31 ottobre sarebbe stato un casino, sin da quando a
fine luglio è uscito il calendario del campionato. Un vero casino. E non solo
perché Sonia mi avrebbe scassato le palle con qualche stupida festa in
maschera, mentre io avevo l’abbonamento in Curva Sud, no: era per quel
‘problemino’ lì. Ma non potevo mancare al derby. “Andrà come deve andare. Magari scopro che il problema è solo nella mia
testa” penso. “Allora, abbonamento
preso, documenti presi, sciarpa presa, bombe carta oggi meglio di no… devo
passare dal pusher.” Saluto i miei,
inforco il motorino smarmittato e parto alla volta dello stadio Olimpico.
Il
rettangolo di gioco è lontano ma allo stesso tempo vicino, sembra quasi
possibile fare un solo passo ed essere lì a giocare, con la folla osannante e
il conto in banca pieno. Non fa freddo per essere fine ottobre. Il Sorcio è
arrivato e già snocciola dati e statistiche sui derby giocati il giorno di
Halloween nel corso della storia, poi tira fuori i foglietti delle scommesse
effettuate.
«Questa
è un rischio, ma se mi vince il Leicester prendo mille euri! Ma che c’hai
stasera, Luca, ti vedo perso… che ti sei calato?»
«Soliti
cannoni, dose multipla. Non c’era però Ahmed, mi sa che se lo so’ bevuto! C’era
un altro. Oggi devo stare calmo, molto calmo». Sorcio mi guarda storto, poi
continua a mostrarmi le ricevute delle sue giocate.
Attendiamo
il fischio d’inizio. Sento bussare sulla spalla. “Sarà il solito vecchio che vuole la solita sigaretta” penso. Mi giro
torvo, ma non trovo il tizio che in genere siede dietro di me. Sotto al
cappello, un volto marrone scuro, le orbite nere e prive di bulbi oculari e
pezzi di materia grigia che fuoriescono dalle orecchie. Le labbra non le ha, e i
denti gialli spiccano su quella faccia orrida.
Mi
rigiro di scatto e rattrappisco nel giaccone.
«Ma
che hai visto un fantasma? Hai una faccia…» mi fa il Sorcio.
«Sì,
tipo» mormoro. Non so se è colpa dell’hashish del nuovo pusher o del ‘problemino’.
La
partita inizia, solita caciara, tutti in piedi a cantare e strillare. Tra il
pubblico noto qui e là occhi vacui che mi osservano, facce staccate a metà col
cervello colante, esseri ricoperti da vermi, tutti rivolti verso di me. Ma
nessun altro sembra farci caso, li vedo solo io. Cerco di guardare il campo,
solo il rettangolo di gioco.
Alla
fine del primo tempo, il telefono squilla.
«Amo’,
come va la partita? Vinciamo? Perfetto! Sono già alla festa, ti aspetto! Esci
prima, daaai! Ti mando l’indirizzo su Whatsapp. A dopo, sbrigati!»
“Sì, mi sbrigo. Forse è meglio che me ne vada
prima, in effetti” penso.
A
un quarto d’ora dall’inizio del secondo tempo mi alzo e inforco le scale.
«Ma
dove vai?» mi chiede il Sorcio.
«Tanto
vinciamo quattro a zero, vado alla festa, così non trovo traffico. Ciao!»
Mentre
salgo la scalinata di corsa, sento qualcosa di gelido che mi blocca una
caviglia, rischiando di farmi cadere. Guardo in basso: una mano scheletrica si
avvinghia sopra il mio piede destro, provocandomi brividi fin dentro le ossa. Col
fiato grosso, mi volto piano e vedo uno di quegli esseri che mi fissa, apre la
bocca sdentata e marcia come per parlarmi, ma non ne esce che fetido fumo.
Scuoto la gamba per liberarmi e corro ancora più veloce verso il parcheggio dei
motorini. Un paio di guardie mi notano, e credendo chissà cosa, mi rincorrono.
Scavo
più in fretta che posso: sembra non esserci nulla. Prima del derby hanno bonificato
ben bene l’area, i maledetti sbirri. Ormai ce li ho addosso: mi afferrano per
un braccio e sento di nuovo odore di cimitero e freddo da oltretomba. Uno di
loro ha il berretto che tenta di celare la testa sfondata, l’altro ha
all’altezza dello stomaco uno sbrego dal quale fuoriescono interiora nere e
pullulanti di vermi. E cercano di parlarmi anche loro, come il tizio allo
stadio. Con la mano ancora libera, finalmente riesco a trovare un bastone
scampato al repulisti della polizia, lo estraggo dal terreno e inizio a menar
fendenti, senza trattenermi, ma è come picchiare l’aria: i due non vengono
scalfiti. In compenso iniziano a svanire, io mi divincolo e scappo. Sento il
cuore in gola. Lo sapevo che non dovevo uscire di casa oggi!
Inforco
il motorino e smanetto a tutto gas verso l’indirizzo della dannata festa di
Halloween, sulla via Cassia.
La
nebbiolina livida calata su Roma Nord non promette niente di buono. Una vocina
nella mia testa mi dice “Luchino, torna a casa!”, ma io niente, sgaso il
motorino al massimo e cerco di non fare caso a quell’essere spappolato che si
rotola sul ciglio della strada, o a quell’auto in cui seduto dietro c’è un
bambino dal colorito bianco-grigiastro e gli occhi cerchiati di viola, e la
bocca spalancata e nera.
Mi
sa che mia nonna aveva ragione.
Suono
alla porta, e mi apre una tipa vestita da Morticia Addams: che fantasia! Sonia
mi corre incontro, con due shottini in mano:
«Amooooo’!
Finalmente! Tieni, bevi!» mi porge il bicchierino e mi bacia: vestita da
streghetta in effetti è sexy. Ma stasera non è cosa.
Intorno
a me si aggirano maschere di tutti i tipi: dalle più banali o fuori tema, tipo
i soliti Batman, Lord Fener, Scream, Freddy Krueger, fantasmi e diavoli vari, e
qualcosa di più figo, tipo il gruppo di The Walking Dead, o il tizio vestito da
Cappellaio Matto depresso, quello del sequel cinematografico.
La
padrona di casa dev’essere un’amante del Giappone, poiché l’appartamento è
pieno di stampe nipponiche e su un mobile troneggia una vera katana.
La
casa ha un giardino, e con Sonia appesa al mio braccio mi dirigo lì, noncurante
delle sue lamentele. Mi butto su un divanetto in un angolo e le dico di andare
a fare quello che stava facendo prima, che devo riposarmi un attimo.
«Amo’,
ma che ti sei preso? Sei strano una cifra» squittisce, ma obbedisce.
Cerco
di concentrarmi, di estraniarmi dal casino festaiolo. La musica è lontana, e
gli schiamazzi pure. Poco lontano ci sono due ragazzi vestiti da vampiri che si
baciano, appassionati e noncuranti.
Avevo
cinque anni quando i miei mi portarono in giro per il quartiere vestito da
fantasmino, il giorno di Halloween. Non ho ricordi nitidi, solo flash in cui
vedo mostri di ogni genere: ho tanta paura, urlo e piango. Gli anni successivi,
il 31 ottobre sono sempre stato da nonna Ada, che si chiudeva in camera con me,
al buio, e mi cantava ninne-nanne finché non mi addormentavo. Verso i dodici
anni, ho notato che spargeva sale intorno alla stanzetta e poi irrorava
l’ambiente con acqua santa, e le chiesi il perché.
«Perché
tu sei come me, tesoro mio: sei una Porta. La notte di Ognissanti è uno di
quelli in cui le distanze tra il mondo dei vivi e quello dei morti sono più
labili, ed essi ti vedono, come se fossi un faro. Vogliono parlarti, ma
soprattutto vogliono passare attraverso di te per tornare tra i vivi. E tu non
devi permetterglielo» spiegò.
Non
le chiesi neppure il motivo, da quanto ero terrorizzato. Mamma e papà non
credevano a nulla di tutto ciò: per loro era solo una vecchietta strampalata,
ma la lasciavano fare.
Dopo
quattro anni la nonna morì. Quell’Halloween lo passai nella mia stanza solo e
strafatto, quello successivo in ospedale in coma etilico; e poi quest’anno, in
cui ho pensato che avevano ragione i miei, erano tutte fantasie da vecchia
folle, e sono uscito lo stesso. Non potevo perdere il derby, cazzo. Sempre un
po’ fatto, ma ‘sti bomboni del nuovo pusher non valgono una ceppa. Oppure sì, e
tutto ciò che sto vedendo è colpa della roba. Sono confuso.
Riapro
gli occhi.
Il
giardino è infestato di morti. Sono vicini, ormai mi circondano. Iniziano a sfiorarmi,
passano attraverso di me lasciandomi gelo e nausea.
Tutti
iniziano a vederli e si complimentano per i costumi.
Io
sono immobile, semisdraiato sul divanetto, quando vedo una figura familiare
davanti a me.
«Nonna».
«Tesoro
mio».
«Perché
ti sento?»
«Perché
vuoi sentirmi».
«Cosa
vogliono tutti questi morti ritornati?»
«Te
lo avevo spiegato, Luchino. Portare con loro i vivi. Trascinarli nelle tenebre.
Tu devi impedirlo».
«E
come?»
Domanda
inutile: nonna Ada se n’é andata così come era venuta, dal nulla
all’improvviso.
Intorno
a me iniziano a succedere cose strane: gente accasciata al suolo, gente che
scappa, urla, qualcuno ride, i vampiri gay ci danno dentro incuranti di tutto.
Mi alzo, vado nel salone e prendo la katana. La sfodero come se fossi un personaggio
dei cartoni animati, tipo Goemon di Lupin III insomma.
Inizio
col decapitare un non-morto-ritornato alla mia destra: stavolta posso colpirli.
Si
sono materializzati dopo essere passati dentro di me, i bastardi.
Qualcuno
mi attacca da dietro, ma non sento nemmeno più dolore: mi giro e ne trafiggo un
altro. Sento Sonia in lontananza che urla “Amooooo’ ma che faiiii?”. Le ordino
di chiudersi nel cesso con le amiche sue. E continuo a sterminarle i vivi-morti:
fanno rumore come quando sfondi una zucca. Qualcuno sanguina e urla, strano!
Ah, sono un po’ confuso e becco anche qualche vivo-vivo.
Scivolo
sul sangue e sulle interiora di qualcuno che ho sbudellato, mi rialzo e
continuo la mattanza: mi sembra di aver combattuto per ore, invece è durato
tutto pochi minuti.
Quando
non c’è più nessuno, mi accascio al suolo anche io.
Sono
al gabbio da un anno e ancora il processo non è finito. Sono quello che sui
giornali, le tv e internet viene descritto come “il diciottenne drogato e
ubriaco che ha fatto strage di coetanei la notte di Halloween”.
L’avvocato
d’ufficio mi ha fatto fare la perizia psichiatrica, che afferma che sono uno
“schizofrenico paranoide”, come mia nonna, dicono. Sonia non mi ha mollato,
perché stando con me è diventata super-popolare e dice che su Instagram
guadagna un botto. I miei mi vengono a trovare al carcere di Rebibbia tutte le
volte che possono e sono fiduciosi che mi faranno fare solo qualche anno di
cure psichiatriche, poi tornerò libero.
Solo
che domani è di nuovo Halloween, e io sono in galera, senza niente per
stordirmi e né armi per difendere i vivi.
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