RACCONTO
STEAMFIELD PARK di MONICA SERRA
- parte 2
I racconti di IUF-
Decameron edition #3 parte 2
(Parte 1 qui)
Steamfield Park
Tribute to Jane
Austen’s
Mansfield Park
(1814)
A steampunk novel by
Monica Serra
Fanny si sentiva ancora carica. L’entusiasmo con cui Tom aveva mostrato a lei e a Edmund la sua invenzione era stato contagioso. Il ciclottero, che secondo lui avrebbe dato nuova linfa agli affari dei Bertram, era una bizzarra combinazione di ottone, ruote e ingranaggi. Per dimostrare di cosa fosse capace, l’aveva fatta volare. Quando la macchina si era levata da terra, un brivido di curiosità aveva graffiato la schiena di Fanny. Ricordava la sensazione di soffocamento nel trattenere il respiro e il grido liberatorio che l’aveva sollevata da quell’oppressione quando il congegno, ruggendo, si era librato in volo dalla terrazza. Edmund, in piedi accanto a lei con le mani intrecciate dietro la schiena, non aveva pronunciato una parola.
Qualche giorno dopo, un valletto dei Crawford si presentò
a Steamfield Park con una lettera per Fanny. Fu Edmund a ritirarla; divorato da
un tormento al quale non riusciva a dare un nome, l’aprì.
Per un lungo istante fissò le parole vergate con
l’elegante grafia di Henry Crawford, incapace di muoversi. Quel damerino senza
ritegno, come osava? Sentì la rabbia montare dentro di sé, dapprima simile al
sordo brontolio di un tuono in lontananza, poi sempre più rumorosa, come quando
si finisce nel cuore della tempesta, e prese una decisione. Afferrò guanti e
cappello e uscì come una furia, diretto alle scuderie.
Fanny tornava dalla passeggiata quotidiana con Lady
Bertram nei boschi che circondavano la tenuta. Era un mattino azzurro e
luminoso e si respirava già nell’aria un anticipo di primavera. La placida
camminata nel profumo lieve delle viole fu interrotta dal cavaliere lanciato al
galoppo lungo il viale che per poco non le travolse.
Edmund! Dove correva in quel modo, come se avesse un
diavolo alle calcagna?
Rientrarono in fretta a casa, Fanny lasciò la zia, ancora
scossa, ai piedi dello scalone e si diresse alla biblioteca. Il pezzo di carta
abbandonato sul tavolino fu la prima cosa che notò. Via via che leggeva,
un’ansia indicibile le dilagava dentro. Era un biglietto di Crawford e
conteneva una scandalosa proposta di fuga. Ora la corsa sfrenata di Edmund
assumeva un senso, e più rileggeva le poche righe, più si convinceva che suo
cugino stesse per commettere una pazzia.
Percorse avanti e indietro la sala, torcendo la lettera
tra le mani, nel tentativo inutile di escogitare qualcosa per fermarlo. Non
aveva molto tempo e i pensieri fuggivano come animali impazziti davanti a un
incendio senza che lei riuscisse ad afferrarli. L’unica cosa che le venne in
mente fu la macchina volante di Tom. Ebbe un brivido di anticipazione all’idea
del volo e si precipitò alla finestra.
Sulla terrazza, lucido e fumante, il marchingegno di Tom
produceva un sordo ronzio, con l’elica che girava a vuoto, pronto a un nuovo
collaudo. Suo cugino, intento a controllare gli ultimi dettagli con la testa
china sul mucchio di progetti poggiati sulla balaustra di marmo, non si accorse
di lei.
Fanny aprì l’alta vetrata, raccolse le gonne e corse
attraverso la terrazza col cuore che saliva in gola, pompando adrenalina e
battendo sordo nelle orecchie. Raggiunse il veicolo in uno svolazzo di
crinoline. Salì la scaletta e fu a bordo, mentre l’elica ruotava e i congegni
producevano un ritmico ticchettio che coprirono i suoi passi. Tirò a sé il
portellone metallico e balzò a prua, dove si trovavano i comandi. Al suono
improvviso della portiera, Tom sollevò di scatto la testa dai suoi fogli. Fanny
ne intravide il volto basito, ma decise di non badargli. Fece correre uno
sguardo inquieto sui dispositivi che aveva di fronte: leve, quadranti, manopole
d’ottone. Lo sconforto le afferrò la gola, impedendole di respirare per un
lungo istante. Tentò di recuperare la calma: ricordò che Tom, mostrandole
l’invenzione qualche giorno prima, le aveva indicato la leva del volo. Lesse le
targhette di ferro che si trovavano alla base di ogni manopola e individuò
quella che le interessava. Ignorando il cugino che si sbracciava per attirare
la sua attenzione, tirò la leva con tutta la sua forza.
L’elica roteò più velocemente, il ronzio si fece più
intenso: con uno sbuffo e un sobbalzo, il veicolo si sollevò e si librò
nell’aria, scaraventando in terra il suo pilota improvvisato. La spinta fece
salire il ciclottero per qualche
metro, poi ci fu un rumore secco e il congegno precipitò.
Fanny era riuscita a trascinarsi fino alla leva del volo:
vi si aggrappò e riportò in quota la macchina.
Un grido di gioia sfuggì alla controllatissima signorina
Price, che si rialzò e prese posto nel sedile riservato al guidatore. Lanciò
un’occhiata in basso. Il magnifico parco di Steamfield si srotolava sotto i
suoi occhi per miglia e miglia, fino alle colline. Tom era sulla terrazza, gli
zii si erano affacciati alle finestre del primo piano, alcuni inservienti sostavano
fuori dalle scuderie. Tutti guardavano in su a bocca spalancata, increduli.
Fanny fece correre lo sguardo sulle tenute che vedeva
sotto di sé, alla ricerca di quella dei Crawford. Quando l’ebbe individuata,
tirò una leva la cui targhetta recava incisa la scritta “avanti”.
Il veicolo ruggì e con uno strappo secco sfrecciò nel
cielo di febbraio, lasciandosi dietro una scia di fumo denso e biancastro.
Cercando di districarsi tra ottoni, vetri e legno, Fanny
governava il volo seduta davanti a una serie di misteriosi dispositivi. Era
consapevole dell’intenso calore che di sicuro le arrossava le guance come se
avesse la febbre, e si sentiva intrepida come mai le era accaduto. Stava volando
ed era sola al comando di quell’assurdo veicolo! Una folata di vento investì il
ciclottero, facendolo vibrare e
oscillare, ma lei riuscì a tenerlo dritto.
Vedeva scorrere sotto di sé campi e boschi, mentre sopra
aveva cielo, cielo e ancora cielo. Il rollio dell’elica accompagnava vibrando quella
pazzesca avventura. Guardò ancora giù e riconobbe villa Crawford. Davanti
all’ingresso della grande casa in pietra grigia, due figure piccolissime
attirarono la sua attenzione. Da quell’altezza era quasi impossibile capire chi
fossero, ma Fanny era istintivamente sicura che si trattasse di Henry e Edmund.
Cercò la leva per l’atterraggio, sperando che i due non
si fossero ancora sfidati a duello. Edmund era così arrabbiato quando l’aveva
visto allontanarsi da Steamfield Park che non aveva dubitato neanche per un che
stesse per commettere una pazzia. E un duello le sembrava proprio il tipo di
sciocchezza che il suo integerrimo cugino fosse capace di compiere.
Trovò la leva con la targhetta “discesa” e la tirò,
cercando di controllare il tremito delle mani. Il rumore dell’elica cambiò e
lei trattenne il respiro. Il ciclottero
sobbalzò, sussultò, poi calò a terra con una scossa finale. Ci fu uno sbuffo di
vapore grigiastro, un sibilo e il motore si arrestò.
Il portellone di metallo si aprì su due paia d’occhi
stupefatti. Sul giardino dei Crawford era calato un silenzio così profondo, che
Fanny scese a terra credendo di essere diventata sorda. La testa le girava e le
gambe erano malferme. Senza contare i lividi che si era procurata nei vari
scossoni. Sopraffatta dalle emozioni accumulate, scossa dai singhiozzi, scivolò
in ginocchio nell’erba.
Edmund corse nella sua direzione e s’inginocchiò davanti
a lei. Le sollevò il volto e la costrinse a guardarlo, mentre con la punta
delle dita le asciugava le lacrime.
«Fanny». La scrutò con aria preoccupata. «Stai bene? Cosa
ti è saltato in mente? Salire su quel trabiccolo…»
Lei singhiozzò più forte.
«Ti ho visto andar via» farfugliò. «E ho trovato il
biglietto di Henry e ho pensato che…». S’interruppe, sentendo su di sé lo
sguardo di Crawford, e alzò gli occhi. Alle spalle di Edmund, Henry la guardava
con una strana espressione, tra l’ammirazione e il rimpianto. Distolse lo
sguardo e si perse in quello color castagna di Edmund.
«Ho avuto paura per te». Concluse la frase pulendosi il
volto col dorso della mano, escludendo con quelle parole Crawford dal suo
destino. Definitivamente.
Henry incassò la sconfitta con la consueta eleganza. Accennò
un inchino, poi girò le spalle ai due e rientrò in casa.
A quel punto, Edmund la strinse a sé, con un gesto brusco
ma al tempo stesso premuroso.
«Paura? Per me?» domandò, affondando il viso tra i suoi
capelli.
Fanny annuì. Sentiva il cuore del cugino battere forte
sotto la camicia bianca umida delle sue lacrime.
«Non potevo permettere che tu affrontassi Crawford per
difendere il mio onore. Temevo che lo sfidassi a duello e mi serviva un mezzo
per raggiungerti. Così ho rubato la macchina volante di Tom».
Negli istanti che seguirono, Fanny ebbe l’impressione che
Edmund trattenesse il fiato. Fu scosso da un lieve tremolio, che a poco a poco
salì di volume e intensità, fino a esplodere in una risata.
Rideva! Edmund rideva. Erano anni che non lo sentiva
ridere così. Sollevò lo sguardo, sorpresa.
«Non era mia intenzione sfidare a duello Mr Crawford» le spiegò,
con una strana luce negli occhi. «Volevo solo avvisarlo che non avrei tollerato
altre avances nei confronti della
futura signora Bertram».
Fanny sbatté le palpebre. Era confusa, le sembrava di
essere avvolta in una nuvola di melassa, che ovattava i suoni e le impediva i
movimenti. Poi le parole di Edmund si fecero strada nella sua mente e capì. La
nebbia svanì e lei fu di nuovo libera. Non smise di piangere. Ma tra lacrime e
risa, gettò le braccia al collo del suo amato cugino e lo baciò.
A pochi passi da loro, il lucido ottone che rivestiva il ciclottero scintillò ai pallidi raggi
del sole invernale. Il bizzarro marchingegno era pronto riprendere il volo: prima
di sera, Edmund e Fanny sarebbero stati di nuovo a Steamfield Park. Di nuovo a
casa.
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